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Nelson Mandela: tutti siamo nati per essere fratelli

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La nostra inviata nel tempo ha intervistato Nelson Mandela, l’eroe contro la discriminazione razziale

Se fosse ancora vivo, il 18 luglio compierebbe 103 anni. Ma qui, nel 1995, il presidente del Sudafrica, Nelson Mandela (che tutti chiamano“Madiba”, il titolo onorifico degli anziani del suo clan), è ancora un uomo agile e scattante, che non dimostra affatto i suoi 77 anni. Tanto che mi tocca intervistarlo allo stadio, in mezzo ai 62mila tifosi della nazionale di rugby: è la finale dei mondiali e i padroni di casa se la giocano contro i neozelandesi. Siamo alle ultime battute e...

«Goooooal!!! Siamo campioni del mondo: il Sudafrica è campione del mondo di rugby!!! Ma ha visto che vittoria?!?».

«Ma, Madiba, non la facevo così tifoso...».

«Mia cara, questa non è una partita come le altre: in ballo non c'è solo un trofeo. Si guardi intorno: tutti i Sudafricani, sia quelli con la pelle bianca che quelli con la pelle nera, stanno tifando insieme per la loro squadra. Di questi tempi, nella nostra nazione, è la vittoria più grande!».

Sinceramente non capisco...

«Vede, il rugby è stato portato nel nostro paese alla fine dell'Ottocento dai bianchi, gli Europei che hanno colonizzato il Sudafrica. Anche se erano una piccola minoranza, a lungo quei bianchi hanno governato e fatto leggi crudeli contro i neri, istituendo la cosiddetta “apartheid”, cioè la “separazione” della popolazione in base al colore della pelle. E dato che nella squadra nazionale di rugby i giocatori sono quasi tutti bianchi, anche se siamo tutti Sudafricani finora i neri hanno sempre tifato contro di loro»

E oggi, allora?

«Oggi le cose stanno cambiando: l'apartheid non c'è più e l'anno scorso, per la prima volta, anche i neri hanno potuto votare alle elezioni. E io, che sono stato eletto presidente, sto facendo di tutto perché il Sudafrica diventi un paese unito, libero e giusto per tutti i suoi abitanti, neri o bianchi che siano»

Ora capisco! Ed è per questo che le hanno consegnato il premio Nobel per la pace, due anni fa?

«Sì. Ma per questo stesso motivo, nel 1964, sono finito in prigione. Non c'è nessuna strada facile per la libertà: lo scoprii già da ragazzo, quando decisi di lasciare la mia tribù»

Perché lo fece?

«Sono cresciuto in un paesino: andavo in giro scalzo, custodivo pecore e vitelli, sfidavo gli amici in interminabili lotte col bastone. Ma la mia vita cambiò a nove anni, quando mio padre morì: era stato il consigliere del re della tribù Thembu e il reggente mi prese sotto la sua tutela. Mi fece studiare nelle migliori scuole per neri, per prepararmi a un futuro da consigliere di corte, ma quando mi impose un matrimonio combinato, mi ribellai e fuggii a Johannesburg. Ero un romantico: non avrei permesso a nessuno di scegliermi la moglie».

E nella capitale conobbe il suo primo “amore”...

«Esatto: la politica! Nel 1942 mi unii all’African National Congress (ANC), un partito fondato nel 1912 per difendere i neri dai soprusi della minoranza bianca al potere. Per anni manifestammo in modo pacifico contro il governo: chiedevamo uguaglianza, ma loro ci rispondevano con le armi. Uccisero senza pietà centinaia di persone, donne e bambini compresi, e non ci diedero altra scelta: la lotta politica violenta. Diventai un super ricercato: mi chiamavano “la Primula nera”».

Ma nel 1964 la Primula finì in carcere: rimase 27 anni nella terribile colonia penale di Robben Island, chiuso in una cella minuscola, controllato da guardie spietate. Com'è sopravvissuto?

«Non ho mai smesso di lottare: lì dentro, per migliorare la vita di tutti noi detenuti. E quando mi liberarono e varcai quel cancello, ebbi la sensazione che, nonostante i miei 71 anni, la vita stesse per ricominciare. Ricordo ancora di aver alzato il braccio destro, con la mano stretta a pugno, in segno di lotta. La gente rispose con un boato: “Amandla ngawethu”, “Potere al popolo”. E così è stato».

E adesso che è presidente, si riposa?

«Eheheh, magari! Continuo a svegliarmi ogni mattina alle 4 e mezza, perché c'è ancora molto da fare: anche dopo la fine dell'apartheid, tra bianchi e neri le cose non vanno benissimo. Ma la mia parola guida è “riconciliazione”: perché perdonare qualcuno che ci ha fatto molto male è difficile, ma è anche il primo passo verso la pace».

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