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A spasso nel tempo: 24 ore con i migranti

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A spasso nel tempo: 24 ore con i migranti
Giovanni Garattoni

I migranti vivono settimane in mare stipati su una nave. E una vita di stenti in terra straniera. Quando i “migranti” erano italiani si scappava dalla Sicilia per New York. Oggi dall’Africa per venire in Europa.

Sono uno delle migliaia di migranti, spalanco gli occhi: mi era sembrato di sentirla di nuovo, la sirena della nave giunta in porto. La stessa che mi aveva svegliato il giorno in cui arrivammo in America, quasi un anno fa, dopo settimane di navigazione sull’oceano agitato. Era il 1905. “Ne varrà la pena”, mi rincuorava mio padre nei momenti peggiori. E quando scesi a terra e vidi poco lontano la Statua della libertà, pensai che aveva ragione. Venne a prenderci mio zio, a New York già da quattro
anni: era stato lui a convincere papà lasciare Palermo.

UNA STANZA PER SEI

Sembrava dimagrito ma, col suo solito sorriso, ci accompagnò in Mulberry Street. Disse che a New York tutti gli migranti italiani abitavano lì. E infatti è qui che abitiamo anche noi, adesso. Mio padre, mia madre, mia sorella Maria, i gemelli e io viviamo dentro un brutto edificio di sei piani, in un’unica stanza: su un lato c’è il fornello, la stufa e il tavolo, sull’altro tre letti. Abbiamo solo una finestra, che si apre sul cortile circondato da altri palazzi come il nostro.

SARTA E GARZONE

Mia madre non esce quasi mai: fa la sarta e cuce tutto il giorno per un importante negozio. La guardo: forse non è neppure andata a dormire ieri. Le do un bacio prima di uscire, poi aspetto gli altri sulla porta: io ho 10 anni, tocca a mia sorella, che ne ha due di più, aiutare i gemelli a lavarsi la faccia. Poi, tutti insieme andiamo a scuola. Odio quel posto! L’insegnante sbaglia sempre il mio nome, gli altri bambini mi prendono in giro e mi chiamano “dago”, un nome spregiativo che usano per noi migranti italiani.

Per fortuna a pranzo torno a casa: mangio pane e frutta con i miei fratelli, quindi, mentre Maria aiuta mamma, io vado a pulire scarpe sul marciapiede di fronte allo Sheraton Hotel. Papà, che in Italia faceva il barbiere, a New York ha trovato posto solo come facchino: vuol mettere da par te i soldi per aprire un proprio salone, per questo do una mano anch’io.

"DIVENTERÒ RICCO!"

Ancora due anni di scuola, poi potrò dedicarmi esclusivamente al lavoro: allora guadagnerò abbastanza
da comprare ogni domenica l’ice cream ai gemelli e un bel nastro per i capelli a Maria. E mamma non dovrà più restare sveglia fino a tardi. Scendo le scale pensando al futuro meraviglioso che ci aspetta e, quando arrivo in cortile, quasi sbatto contro Al. Ha un anno più di me ma sembra molto più grande: è il capo di una banda di ragazzini che gironzola per il quartiere. Si dice che rubi e che lavori per gente pericolosa. «Ho smesso di andare a scuola, Giovanni: fallo anche tu! Se entrassi nella mia gang potresti guadagnare molto più di quello stupido di tuo padre», mi dice arrogante.

Non mi piace Al e non mi piace che parli così di papà: «Non mi interessa la tua banda!», sibilo con rabbia. Lui diventa rosso e infila la mano in tasca: fra le mani gli luccica un rasoio. «Giovanni! Vai a lavorare!»: è mia madre, che mi controlla dalla finestra. Al mi lancia un’occhiataccia e si allontana, io corro via col cuore che batte all’impazzata.

LUSTRASCARPE

Corro sul marciapiede affollato, tra i carretti che vendono salsicce e i banchi di verdura, tra suonatori ambulanti, venditori di cianfrusaglie e bambini che giocano per strada. Mi fermo solo di fronte allo Sheraton: passo tutto il pomeriggio in ginocchio, a sputare sulle scarpe impolverate e a farle diventare lucide con straccio e spazzola. Quando il sole tramonta torno a casa. Mamma mi chiede di Al: «Non parlerai più con lui, vero?». «Certo mamma, è un prepotente». Ci sediamo tutti a tavola, di fronte a una minestra di cavoli e patate. «Dai Giovanni, insegnaci qualche parola americana», mi dice papà. È bello vederli tutti attenti ad ascoltarmi: l’America è proprio stupenda!

APPROFONDIMENTO

Tra il 1876 e il 1915, circa 25 milioni di italiani, spinti dalla povertà, lasciarono le loro regioni per andare in cerca di fortuna: la maggior parte di loro scelse di andare negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile. I migranti diretti negli Stati Uniti navigavano sull’oceano Atlantico per molti giorni, viaggiando in terza classe in pessime condizioni igieniche. Quando giungevano in vista di New York, erano costretti a sbarcare sull’isolotto di Ellis Island, nella baia cittadina. Sulla cosiddetta “isola delle lacrime” erano sottoposti a controlli medici e burocratici: solo chi aveva tutte le carte in regola poteva metter piede sul continente americano.

SPORCHI, STUPIDI E PIGRI

Ma qui, come gli altri immigrati, gli italiani furono vittime di molti pregiudizi: nonostante il loro lavoro fosse importante per l’economia statunitense, gli americani li consideravano poco intelligenti, sporchi e pigri, troppo rumorosi, con troppi figli e fissati con gli spaghetti al pomodoro. Non di rado venivano sfruttati e costretti a versare una tangente per ottenere un lavoro o una abitazione. Per questo molti di loro scelsero di darsi alla malavita, seminando così la convinzione, negli Stati Uniti, che tutti gli italiani fossero assassini, delinquenti e mafiosi.