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Memoriale della Shoah a Milano: la storia del Binario 21

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A Milano un binario semi-nascosto conserva il ricordo di una delle pagine più triste della storia della città: la deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio in Polonia.

  • Binario 21
  • Perché "Indifferenza?
  • Liliana Segre

BINARIO 21

Se alla stazione di Milano cercate il Binario 21 non lo trovate. Bisogna uscire dalla stazione, costeggiare piazzale Luigi di Savoia, oltrepassare il sottopasso, percorrere altri 500 metri in via Ferrante Aporti per arrivare davanti ad un anonimo ingresso che nasconde un binario da dove il 30 gennaio del 1944 partì un convoglio con 605 esseri umani diretti al campo di sterminio di Auschwitz.

Oggi a ricordare quella tragedia c’è un memoriale voluto proprio da una delle persone deportate sopravvissuta: Liliana Segre, una nonna di 90 anni, ora senatrice a vita della Repubblica italiana, che quando fu catturata ne aveva solo 13.

Ad accoglierti è una parola: indifferenza

PERCHÈ "INDIFFERENZA"?

Per noi è solo un sostantivo ma in quegli anni l’indifferenza della gente aveva permesso che tra i 1943 e il 1945 partissero da quel binario quindici carri bestiame sui quali furono stipati migliaia di deportati politici ed ebrei come Liliana diretti alle camere a gas.

L’area di via Ferrante Aporti, situata a livello stradale sotto i binari che vedi passando a Milano in via Pergolesi, era adibita al carico e allo scarico della posta. Funzionava così: il carro-vagone posizionato su un carrello traslatore veniva messo su un ascensore montavagoni e sollevato fino a raggiungere il binario all’aria aperta situato tra la banchina 18 e 19. Lì i carri venivano agganciati ad un locomotore.

Nessuno avrebbe mai potuto pensare che quel marchingegno industriale ideato per le Poste prima o poi sarebbe potuto servire per trasportare uomini, donne e bambini senza che nessuno vedesse.

LILIANA SEGRE

Se lo ricorda bene Liliana Segre che spesso ha raccontato la sua atroce partenza dalla stazione di Milano, proprio davanti al Binario 21.

Catturata dopo aver tentato di espatriare in Svizzera con il padre per fuggire alla persecuzione delle leggi razziali fasciste che le avevano impedito persino di andare a scuola, passò gli ultimi giorni di gennaio al carcere di San Vittore. La mattina del 30 gennaio del 1944 venne caricata violentemente su un camion.

Attraversò la città deserta, rivide per l’ultima volta la sua casa in via Magenta al civico 55, fino alla stazione. Lì i camion infilarono i sotterranei e si fermarono proprio davanti ai binari nel ventre dell’edificio.

«Il passaggio – racconta Liliana Segre – fu velocissimo. Non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena uno era pieno, veniva sprangato e portato con l’elevatore alla banchina di partenza. Tutto si svolse nel buio del sotterraneo, illuminato da fari potenti nei punti strategici. Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno partì».

Oggi quell’ascensore elevatore è ancora lì: lo puoi vedere, puoi immaginare quel triste lavoro che ha compiuto. Nel sotterraneo di via Ferrante Aporti c’è ancora anche uno di quei vagoni. Entrare, restare qualche minuto in silenzio avvolti dall’oscurità e dalla sensazione di claustrofobia che trasmette un carro senza uno spiraglio di luce, aiuta a comprendere quello che è accaduto a Liliana e a tutti i deportati:

«Nel vagone – spiega l’anziana donna – era buio, c’era un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni. Andava molto piano, fermandosi a volte per ore. Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari. Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica per cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, camini fumanti, campanili. Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo. Anch’io e papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”».

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