Sono trascorsi cent’anni da quel 10 giugno 1924 in cui il deputato socialista Giacomo Matteotti fu sequestrato e ucciso per mano di sicari fascisti. In Italia ci sono centinaia di vie e piazze dedicate a lui. Nei manuali scolastici si accenna al suo assassinio, ma poco o nulla si dice della sua vita. Nonostante sia un personaggio importante della nostra Storia, Giacomo Matteotti rimane sconosciuto ai più.
Giacomo Matteotti era nato nel 1885 a Fratta Polesine (Rovigo), in una famiglia benestante. I suoi genitori possedevano un grande emporio e dei campi. A sedici anni, mentre frequentava il liceo classico a Rovigo, decise di iscriversi al Partito Socialista Italiano. Una scelta che agli occhi dei suoi avversari lo fece apparire come un traditore di classe. Alcuni presero a chiamarlo con disprezzo "milionario impellicciato": non potevano accettare che un ricco si schierasse dalla parte dei poveri. Uno dei suoi più stretti collaboratori rivelò che anche fra i dirigenti del suo partito non tutti gli volevano bene: Matteotti «era più temuto e stimato che amato».
Rigoroso e intransigente, rapido nel decidere e nell’agire, era combattivo e pieno di energia: per questo fu soprannominato Tempesta. Si era laureato in Legge a Bologna, e il professor Stoppato, con cui aveva discusso la tesi, lo incoraggiò a intraprendere la carriera universitaria. Ma Giacomo preferì seguire la sua passione: la politica. Aveva mosso i primi passi come consigliere e amministratore comunale, dandosi immediatamente da fare per creare delle biblioteche popolari, risolvere il problema del sovraffollamento scolastico, cercare spazi per nuove aule...
Grazie alle sue competenze in materia di diritto e di economia, aiutava i suoi colleghi a leggere e a redigere i bilanci e li supportava nel disbrigo delle diverse pratiche amministrative. Gli piaceva il lavoro ben fatto: «in ogni più piccola cosa avrei voluto intervenire, e magari anche togliere la scopa allo spazzino per insegnargli a pulire, perché mi pareva che nessuno facesse bene abbastanza in confronto di quello che desideravo». Era un uomo colto, parlava il francese, l’inglese e il tedesco. Amava i libri, andava ai concerti e a teatro.
Per lui l’educazione e il sapere erano lo strumento principale per combattere le diseguaglianze e liberare il popolo dalla condizione di miseria e di sfruttamento in cui si trovava. La scuola, però, non doveva servire unicamente a trovare un’occupazione: doveva prima di tutto educare alla bellezza e sviluppare l’immaginazione di bambini e ragazzi. Perché soltanto così, stimolando il pensiero, la creatività e il confronto d’idee, avrebbero potuto sognare un futuro migliore e impegnarsi a realizzarlo, innescando i cambiamenti necessari alla società. «Vogliamo noi veramente che la scuola sia una preparazione per l’officina, pel lavoro? No, assolutamente; la scuola deve essere qualche cosa per cui, almeno per quattro o cinque anni, la gente del popolo non pensi alla preparazione del lavoro manuale, impari qualche cosa che sia fuori del lavoro immediato, impari anche delle astrazioni».
Se nella sua vita pubblica Matteotti si è sempre mostrato determinato, c’è tuttavia un campo in cui ha manifestato timori e incertezze: l’amore. Giacomo conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna, Velia, nell’estate 1912, durante una villeggiatura sull’Abetone. La scintilla scoccò all’istante e i due cominciarono presto a uscire insieme. Non potevano essere più diversi. Lui, ateo e socialista; lei, religiosissima, aveva studiato in un collegio cattolico. Nonostante ciò, Velia accettò di unirsi a Giacomo solo civilmente: sposarsi in chiesa, per lui, rappresentava un'incoerenza inaccettabile, un cedimento morale rispetto ai suoi principi. Ebbero tre figli: Giancarlo (1918), Gianmatteo (1921) e Isabella (1922).
Giacomo Matteotti fu tra i primi a comprendere la vera natura del fascismo e non esitò a denunciarne la violenza, i soprusi e il malaffare. Aveva avuto modo di subire sulla sua pelle i metodi fascisti nella sua terra, il Polesine. Una provincia molto povera del Veneto, dove nel primo Dopoguerra, fra il 1919 e il 1921, i socialisti avevano riscosso enormi consensi, anche sull’onda dell’euforia per la Rivoluzione russa. Nel 1917, infatti, i bolscevichi di Lenin avevano destituito lo zar e conquistato il potere, dando vita al primo governo guidato dai Soviet, cioè le assemblee dei delegati di operai e contadini. Tra il fermento e l’entusiasmo, tanti giovani erano accorsi in quegli anni a iscriversi al Partito Socialista e la corrente massimalista – quella che voleva «fare come in Russia» conquistando il governo con la forza – ingrossò le fila a discapito di quella riformista a cui apparteneva invece Matteotti, meno attrattiva perché più moderata.
Per i riformisti il cambiamento doveva procedere in modo graduale, di pari passo con l’educazione dei ceti popolari e nel rispetto del metodo democratico. Giacomo Matteotti condannò sempre la violenza, anche quando proveniva dalla sua stessa parte politica, come durante il cosiddetto Biennio rosso, quando alcuni militanti si abbandonarono a eccessi e soprusi, come occupazioni abusive di fabbriche e campagne, incendi di fienili, scioperi pretestuosi, saccheggi e sequestri di persona. Per questi stessi motivi Giacomo Matteotti era contro il comunismo, «complice involontario del fascismo»: «La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura dell’altro». In tutto ciò possiamo forse intravvedere una delle ragioni per cui il fascismo individuò in Giacomo Matteotti il suo più temibile avversario.
Giacomo Matteotti non era un arruffapopolo o un incendiario: studiava, leggeva le carte, si preparava con serietà. Era un politico autorevole, e incalzava i suoi avversari con dati e fatti inoppugnabili, senza tregua. Come faceva ogni volta che poteva, soprattutto in Parlamento. Ad esempio, quel 30 maggio 1924 in cui chiese di invalidare le elezioni contestando i brogli dei fascisti. O il 31 gennaio 1921 e il 10 marzo 1921 in cui denunciò le violenze degli squadristi. O nel febbraio 1924 quando pubblicò un volume dal titolo Un anno di dominazione fascista replicando punto per punto alla propaganda e alle menzogne di regime: «I numeri, i fatti e i documenti raccolti in queste pagine dimostrano […] che mai tanto, come nell’anno fascista, l’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la Nazione in due ordini, dominatori e sudditi».
Ma c’è forse anche un’altra ragione per cui Matteotti doveva morire. Aveva scoperto infatti una complessa rete di corruzione che coinvolgeva alcuni importanti esponenti del fascismo e una società petrolifera americana chiamata Sinclair Oil Co. A seguito di trattative riservate, quest’azienda nel gennaio del 1924 aveva ottenuto in concessione esclusiva per dieci anni un’ampia parte del sottosuolo italiano per condurre ricerche petrolifere: era stata autorizzata a farlo a condizioni economiche molto vantaggiose.
Se la Sinclair Oil Co ci guadagnava perché aveva l’opportunità di operare in assoluto monopolio, cioè senza rivali, i vertici del fascismo – tra cui i fratelli Arnaldo e Benito Mussolini – in cambio avevano intascato delle tangenti, mascherate sotto forma di finanziamenti a un giornale filogovernativo. Pare che Matteotti volesse denunciare anche questo scandalo, durante la seduta parlamentare dell’11 giugno 1924. Si era iscritto a parlare, e il suo discorso era atteso con trepidazione. Ma Mussolini decise di tappargli la bocca per sempre, prima di quel giorno.
L’incarico di ucciderlo fu affidato alla Čeka fascista, la polizia segreta. Ne facevano parte una banda di sicari capeggiata dallo squadrista Amerigo Dùmini. Matteotti fu sequestrato nel pomeriggio del 10 giugno 1924 a pochi passi da casa sua, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, mentre si recava alla biblioteca della Camera dei deputati. Fu accoltellato in macchina e il suo cadavere seppellito in una boscaglia. Come scrisse lo storico e antifascista Gaetano Salvemini a Velia: «Lui aveva fatto tutto il suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini. Allora presi la mia decisione. Dovevo ritornare ad occupare il mio posto nella battaglia. Ed ho fatto il possibile per attenuare in me il rimorso di non aver fatto sempre tutto il mio dovere». Fu così che dal martirio di Giacomo Matteotti germinò l'autentica coscienza antifascista.