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23 maggio 1992: il racconto della strage di Capaci

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Trentadue anni fa la mafia siciliana uccideva il giudice Giovanni Falcone insieme alla sua compagna e ai tre agenti della scorta. Facciamo un salto indietro nel tempo per rivivere quei terribili momenti e conoscere la storia di un vero uomo di giustizia

Il 23 maggio di 32 anni fa l’Italia si fermava davanti alla TV. L’edizione straordinaria del telegiornale dava una notizia che non avremmo mai voluto sentire: la mafia ha ucciso il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta, gli agenti Vito SchifaniRocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Chi nel 1992 era un bambino di 9-10 anni se lo ricorda quel giorno. Da allora, ogni 23 maggio, gli studenti di tutt’Italia ricordano la strage di Capaci e quell’uomo che aveva lottato contro la criminalità organizzata.
Ma chi era Giovanni Falcone?

La gioventù insieme all'amico Paolo

Nemmeno io che nel 1992 avevo 18 anni l’ho conosciuto di persona. Ho saputo di lui quel giorno della strage e da allora ho fatto il possibile per capire chi fosse: ho letto libri su di lui, sono stato a Palermo per vedere dov’è nato, cresciuto e dove ha lavorato.

Per capire che uomo era bisogna partire da lontano. Da quando era bambino: pensate che il suo libro preferito era “I tre moschettieri” che amava farsi leggere dalla madre per il suo significato: il bene che vince sul male.
E lì nel quartiere della Kalsa, una zona di pescatori, aveva un amico speciale: Paolo Borsellino, un bambino che da grande scelse di fare il giudice e di lottare contro la mafia proprio come Giovanni. Due amici per sempre. Due compagni di gioco che si sono ritrovati da adulti a lavorare assieme contro la mafia al palazzo di giustizia di Palermo.

E poi a morire insieme ammazzati dalla mafia.

Nell'ufficio di Falcone

Per comprendere il loro lavoro sono stato nei loro uffici, un luogo chiamato “bunkerino” perché lì non poteva entrare nessuno se non con il loro permesso.

La scrivania di Falcone è ancora lì con la sua penna stilografica e le sue papere di legno. Falcone, infatti, collezionava papere e Paolo Borsellino ogni volta che Giovanni si allontanava andava nella sua stanza, ne rubava una, la nascondeva in cassaforte, faceva sparire la chiave e lasciava un messaggio all’amico: “Se la papera vuoi trovare 5 (cinque in lettere) mila lire devi lasciare”.

C’è ancora la macchina da scrivere, Olivetti linea 98, ha i tasti poco consumati perché il giudice si è convertito velocemente all’informatica. E poi ci sono degli assegni: sono le tracce che Falcone segue. I sassolini lasciati nel bosco che gli permettono di ritrovare la strada. Alla parete c’è un quadro con una frase di John Kennedy che tanto amava: “Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli e le pressioni. E questa è la base di tutta la moralità umana”.

Sembra di vederlo su quella poltrona di pelle nera. Qualche volta senza cravatta, con gli occhi sulle carte, la sigaretta in bocca. Sopra i monitor di videosorveglianza collegati con l’esterno del bunker c’è il modellino di un elicottero della Guardia di finanza che gli regalò la squadra che operava con lui in occasione del suo compleanno.

In quell’ufficio lui, Paolo Borsellino e il loro capo, il giudice Antonino Caponnetto hanno lavorato per un obiettivo: il maxi processo che riuscì a incarcerare più di 340 mafiosi. Per la prima volta grazie a quei due uomini la mafia perdeva la battaglia.

La strage di Capaci

Ma c’è un altro luogo che sono andato a scoprire per capire cos’è successo il 23 maggio 1992: è l’autostrada che collega l’aeroporto di Palermo alla città. È lì, all’altezza della città di Capaci, che Giovanni e sua moglie sono stati uccisi. Lo capisci da due stele rosse con i nomi di Falcone e dei suoi uomini della scorta.

Ma bisogna tornare con la mente alle 17,45 di quel 23 maggio. Quando il “Falcon 10” atterra, Falcone sale sulla Fiat Croma bianca al posto di guida. Accanto siede la moglie. L’autista va ad occupare i sedili posteriori dell’auto. Sembra di rivedere la scena. Le auto con il lampeggiante blu acceso. Le mani del giudice che poggiano sul volante, le chiavi nel cruscotto. Gli sguardi della scorta che si incrociano, che si parlano senza dire una sola parola. E poi via verso Palermo. Quando escono dall’aeroporto, prendono l’autostrada A29. Non c’è il sole di sempre ma il termometro segna 23 gradi.

Fa caldo. Falcone preme l’acceleratore fino a 120-130 chilometri orari. Non molto distanti da loro due mafiosi, Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondo, avvertono un altro sodale, Gioacchino La Barbera, che le blindate sono partite.

Ventotto chilometri separano l’aeroporto dalla casa del giudice in via Notarbartolo. Falcone vede per l’ultima volta il mare che lo accompagnerà fino all’ultimo istante.

Lui non lo sa ma in una stradina parallela all’autostrada c’è qualcuno che lo segue: è La Barbera che resta in perenne contatto telefonico con Antonino Gioè e Giovanni Brusca, che si trovano su una collinetta sopra Capaci da dove si vede perfettamente la carreggiata. Vanno nella stessa direzione ma su strade diverse. Non si incontreranno mai.

La Fiat Croma marrone fa da apripista, avanza per poi frenare e attendere la Croma bianca del giudice. Dietro, l’ultima blindata cerca di occupare tutte e tre le carreggiate dell’autostrada per impedire a qualsiasi altra autovettura di accostarsi. Il mafioso Giovanni Brusca è su una collinetta tra la sterpaglia, su quel bordo di terreno che consente di controllare persino gli aerei che atterrano. Dall’alto vede il corteo arrivare. Sono le 17,56 minuti e 48 secondi e la Croma di Falcone è al chilometro 4,733 dell’autostrada all’altezza di Capaci.

Un attimo dopo è l’inferno: 500 chili di esplosivo disintegrano quel pezzo della A29. Non c’è più nulla. Solo un cratere che apre un buco nella storia d’Italia.

La Fiat Croma marrone viene investita in pieno dall’esplosione: balza oltre la carreggiata opposta e finisce in un giardino di olivi. L’auto di Falcone si schianta contro il muro di detriti che si alza in aria. L’ultima auto riceve pezzi di cemento, di terra, addosso, ma gli agenti riescono a sopravvivere.
A piangere per lui è soprattutto il suo amico Paolo. Ma anche per lui la strada è segnata: il 19 luglio del 1992 anche lui verrà ammazzato dalla mafia in via D’Amelio.