Sembrava una giornata come le altre, con i pendolari che affollavano le banchine dei binari e i treni che andavano e venivano colmi di viaggiatori un po' affannati dal grande caldo d'inizio agosto. Ma quella non era una giornata come le altre: era il 2 agosto 1980, il giorno della strage di Bologna.
Alle 10.25 di quel sabato, un'improvvisa esplosione squarciò l'ala sinistra della stazione ferroviaria di Bologna.
La parte dell'edificio che si affacciava su piazza Medaglie d'Oro e che comprendeva uffici, la sala d'aspetto di seconda classe e il ristorante, venne spazzata via da in un vortice di fuoco, detriti e lamiere. La deflagrazione colpì anche il treno Ancona-Chiasso che si trovava fermo sui binari per un ritardo. Lo scoppio spezzò la vita di 85 innocenti e ferì gravemente altre 200 persone.
I primi soccorsi furono tempestivi e l'intera città si mosse per reagire alla disgrazia.
I comuni cittadini si misero immediatamente all'opera per rimuovere le macerie ed estrarre corpi e superstiti il più velocemente possibile, mentre gli autobus del trasporto pubblico aiutarono le poche ambulanze disponibili a trasportare i tantissimi feriti negli ospedali più vicini. Qui, molti medici e infermieri bolognesi rinunciarono volontariamente alle ferie per prestare le cure necessarie alle vittime.
Ovunque erano grida e lacrime. L'intero Paese si fermò insieme al grande orologio della stazione.
La vittima più giovane fu la piccola Angela Fresu, appena 3 anni.
Inizialmente si pensò ad un incidente occorso a qualche caldaia, ma quasi subito ci si rese conto che nell'ala colpita non ce n'erano.
A causare l'esplosione infatti fu una bomba, un ordigno composto da 23 kg d'esplosivo nascosto in una valigia piazzata su di un tavolino appena sotto il muro portante dell'ala Ovest, in modo da aumentarne l'effetto dell'onda d'urto. Era stato un attentato terroristico.
Nelle settimane e nei mesi successivi a quella che poi passerà alla storia come "la strage di Bologna", l'intero Paese invocò a gran voce l'identificazione dei responsabili di una simile infamia.
Le indagini però furono fin da subito complicate e inquinate da numerosi "sabotatori" poiché l'attentato, che gli inquirenti ricondussero ad un gruppo terroristico neo-fascista, aveva coinvolto alte sfere della politica e della criminalità organizzata, tanto che ancora oggi, a 38 anni dalla strage, non ne conosciamo ancora i veri mandanti.
Gli unici a finire in manette sono stati gli esecutori materiali dell'atto terroristico: i neofascisti dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari) Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini, ancora minorenne all’epoca della strage. Accanto a loro venne condannato a 10 anni anche Licio Gelli, imprenditore e capo della loggia massonica P2 che fu accusato di aver depistato le indagini.