Quante volte ci è capitato che una canzone accendesse in noi un ricordo? Tante! La musica c’entra con la memoria, ma se pensiamo a quella particolare memoria che è la Memoria della Shoah, lo sterminio degli ebrei d’Europa, la musica ricopre anche lì un posto importante. Si dice che “la musica salva la vita”, e tante volte nella Storia è stato vero.
Per capirlo meglio occorre spostarci in Boemia, una regione dell’attuale Repubblica Ceca, durante la seconda guerra mondiale. Nel 1942 i nazisti avevano ideato il ghetto di Terezín, a 60 chilometri da Praga, all’interno di una vecchia fortezza militare: era organizzato come “campo di transito”, un luogo dove rinchiudere decine di migliaia di ebrei per poi deportarli verso est, nei campi di sterminio. Gli ebrei arrestati potevano portare con sé una valigia dal peso massimo di 20 chili, e tra le cose che ritennero strettamente necessarie c’erano moltissimi strumenti musicali. Tra i deportati c’erano bravi compositori come Viktor Ullmann e Hans Krása. Nelle grandi camerate della prigionia, gli ebrei affrontavano il dolore e la nostalgia suonando e cantando. Perché la musica ti tiene vivo come un maglione quando hai freddo o un pezzo di pane quando hai fame.
Il ghetto di Terezín rappresentava per i nazisti anche uno straordinario esperimento di propaganda, per convincere l’opinione pubblica e la Croce Rossa Internazionale che quanto stava accadendo agli ebrei non fosse in fondo così grave. Nel 1944, i nazisti costrinsero i deportati ad abbellire il lager e a suonare per fingere di stare bene. Poi filmarono quanto avveniva per realizzare una sorta di documentario da diffondere ovunque.
Nel campo di sterminio di Auschwitz era stata formata un’orchestra femminile, composta in particolare da ragazze polacche e da deportate ebree provenienti da mezza Europa. L’orchestra aveva un compito terribile: suonare al cancello del lager quando le squadre di lavoro uscivano al mattino e rientravano alla sera. I gruppi di lavoro erano composti da prigionieri, impiegati come schiavi nelle fabbriche nei dintorni di Auschwitz: secondo i nazisti, la musica avrebbe allietato il loro compito. Tra le altre, nell’orchestra erano presenti la straordinaria violinista Alma Rosé, nipote del compositore Gustav Mahler, la violoncellista Anita Lasker e la cantante Fania Fénelon. Le orchestrali potevano godere di alcuni piccoli privilegi: il cibo per loro era leggermente migliore, la baracca dove dormivano era più calda d’inverno. Ma i loro cuori erano spezzati dall’idea di fare musica per chi veniva condannato a morte.
Henri Akoka aveva la faccia da simpatico malandrino e mille identità diverse in una sola persona: era un clarinettista francese, ebreo, e di origini algerine. Fu catturato dai nazisti alla fine del 1940 e chiuso in un campo di prigionia al confine con la Polonia, insieme al suo caro amico Olivier Messiaen, che poi divenne uno dei musicisti più importanti del secolo scorso.
Messiaen suonava il pianoforte e componeva musica: gli fu concesso di mettere in piedi un quartetto. Oltre ad Akoka, furono scelti un violinista e un violoncellista. Non mancarono i problemi: il pianoforte che usava Messiaen aveva alcuni tasti che non tornavano al proprio posto dopo che erano stati premuti, e al violoncello mancava una corda. Ciononostante, Messiaen scrisse una composizione difficilissima e struggente, che fu eseguita per la prima volta nel gennaio del 1941 all’interno del campo e s'intitolava “Quartetto per la fine del tempo”.
Ma il tempo non finisce mai. Alla fine della guerra, tanti musicisti e musiciste erano stati uccisi dai nazisti. Alcuni si erano salvati, pieni di dolore. La musica invece non puoi ucciderla, e quella musica dei lager continua a suonare, ancora oggi, e a ricordarci quanto è preziosa ogni vita umana
Gli strambi e agguerriti avatar che popolano Fortnite sono oggi 239 milioni, e dopo anni di battaglie il loro universo digitale si sta evolvendo in direzioni davvero particolari. All’interno degli illimitati spazi virtuali del videogame, è stato inaugurato un museo della Memoria: si chiama “Voices of the Forgotten” (voci dei dimenticati) e offre la visione di immagini e filmati d’epoca, di una narrazione degli eventi passati e di zone interattive dove avvicinarsi alla storia delle vittime della Shoah e alle vicende dei Giusti tra le nazioni.
Negli ultimi 60 anni, Anne Frank è stata interpretata da numerose attrici, a teatro e al cinema. Di volta in volta, tutte sono state scelte anche per la loro somiglianza con l’originale. Ma cosa succederebbe se una ragazza molto diversa da Anne volesse interpretarla? In un nuovo cortometraggio, il regista Adi Eshman e la regista Desiree Abeyta raccontano una vicenda apparentemente semplice ma capace di riempirci la testa di domande: nella sala d’attesa del casting per un film su Anne, la nipote ebrea di sopravvissuti della Shoah (Lauren, interpretata da Natasha Roland) incontra un’attrice afroamericana (Mia, interpretata da Samanthia Nixon): entrambe hanno talento ed entrambe vogliono ricoprire il ruolo di protagonista. «Io posso capire meglio Anne Frank perché sono ebrea», dice Lauren. «Io posso capirla meglio perché oggi sono vittima di razzismo», risponde Mia. E noi non sappiamo più per chi tifare, ma capiamo da vicino che la libertà è il cuore di ogni scelta.
L’università di Haifa, in Israele, sta sperimentando nuove tecniche per la divulgazione della storia, fra le quali è previsto l’utilizzo della realtà virtuale. Chi partecipa al progetto indossa un visore 3D di ultima generazione: l’esperienza prevede una vera e propria immersione nella storia della Shoah, attraverso la visione dei luoghi e all’ascolto dei racconti dei testimoni. La stessa università sta realizzando una serie di interviste ai sopravvissuti dei lager, ormai molto anziani, filmando tutto con particolari telecamere che trasformano gli intervistati in modelli tridimensionali.
Partono i lavori per il Museo della Shoah di Roma. Dopo anni di attesa, progetti e rinvii, finalmente la capitale avrà un museo dedicato alla Memoria, con una architettura particolarmente avveniristica. Realizzare un museo di quel genere significa ricordare la deportazione e l’uccisione degli ebrei romani, e simbolicamente quella di tutti gli ebrei italiani. La sede nascerà a Villa Torlonia, a pochi passi da quella che era la residenza di Mussolini dal 1925 al 1943, e all’interno ospiterà tre grandi sale in forma di rampa, così che non ci sia uno stacco tra un piano e l’altro, 2500 metri quadrati di esposizione permanente, un percorso con una grande vetrata per simboleggiare “le luci e le ombre”. All’esterno, sarà realizzato un viale dedicato ai “giusti tra le nazioni”, persone che a rischio della vita hanno salvato uno o più ebrei dalla deportazione.
Claudio Bisio, attore e conduttore televisivo, ha firmato il suo primo film come regista e ha deciso di raccontare una storia ispirata alla Shoah. “L’ultima volta che siamo stati bambini” è ambientato in Italia negli anni della seconda guerra mondiale, e vede per protagonisti tre ragazzi di dieci anni: Cosimo, Vanda e Italo. Quando il loro amico ebreo Riccardo viene deportato dai nazisti nel rastrellamento del ghetto di Roma nel 1943, i tre cominciano un lungo viaggio con la voglia di salvarlo, tra speranze e illusioni, fino a scoprire l’esistenza dei lager. Il film, che ricorda vagamente “Stand by me” di Stephen King ma con tutt’altra atmosfera, è tratto da un romanzo di Fabio Bartolomei.
A Milano, lungo il perimetro della Stazione Centrale e accanto al Memoriale della Shoah, c’è un murale che raffigura i Simpson al completo. È stato realizzato dall'artista aleXsandro Palombo e mostra la celebre famiglia della serie tv in abiti particolari: i personaggi non indossano i loro vestiti usuali ma le casacche a strisce degli internati nei lager. Su ogni casacca, l’artista ha disegnato la stella gialla a sei punte che gli ebrei erano costretti a portare. L’opera è in un luogo simbolico e tristemente importante per la storia di Milano: molti lo chiamano semplicemente “Binario 21”, perché da lì venivano fatti partire i treni dei deportati verso i campi di concentramento e di sterminio, in Germania e in Polonia.
L’archivio del Pontificio Istituto Biblico è un posto da studiosi, che riserva sorprese e novità. Tra vecchi incartamenti e faldoni classificati, sono stati da poco ritrovati gli elenchi degli ebrei perseguitati che trovarono rifugio nelle chiese e nei conventi di Roma. La documentazione era finora inedita: si tratta di pagine e pagine di elenchi di persone protette dalle persecuzioni nazifasciste nella Capitale grazie all’accoglienza offerta dalle parrocchie, dai conventi, dai seminari… Nella tempesta della seconda guerra mondiale, c’erano anche in Italia persone che non si sono lasciate tentare dall’odio e che hanno salvato le vite di gente sconosciuta.
*Matteo Corradini, l’autore di questo articolo, è scrittore ed ebraista. Ha curato la nuova edizione italiana del Diario di Anne Frank (Rizzoli) e da anni fa ricerca sul ghetto di Terezín, in Repubblica Ceca.