Chi sa come difendersi dal caldo di questi giorni e da quello che verrà da ora fino ad agosto? Non si può sempre stare nell’acqua, che sia in quella del mare, di un lago, di una piscina o di una piscinetta gonfiabile. Arriva prima o poi il momento, durante la giornata, di passare del tempo in casa. Ed è molto probabile, anche se è sera, che il caldo tornerà a farsi sentire. Noi, nel 2023, ci chiediamo come fare. Ma come spesso accade, le risposte a queste domande le avevano già date gli antichi. Tanto tempo fa, infatti, i rimedi contro il caldo non solo erano eccellenti, ma non provocavano inquinamento né spreco di risorse energetiche: utilizzarle in tutto il mondo oggi sarebbe ottimale per la salvaguardia dell’ambiente, per il risparmio energetico e per le nostre tasche. In alcune occasioni, si tratta di accorgimenti e usi semplicissimi. Allora iniziamo il viaggio dall’antica Persia, passando per la Palestina e l’antica Grecia e Roma, da Vicenza fino alle Bermuda e alla California.
In Persia (vale a dire nell’Iran di oggi), circa 1.000 anni fa, venivano progettati e realizzati degli edifici che presero il nome di “Torri del vento”, o “bad-ghir” in persiano. Che cosa erano e cosa avevano di così efficace contro il caldo? (Ah, ragazzi, una parentesi: ricordatevi sempre che tanti anni fa non esisteva la tecnologia che conosciamo oggi, e non c’era l’elettricità, tanto per fare un esempio. Chiusa parentesi.) Ebbene, queste torri venivano costruite proprio sopra gli edifici e riuscivano a indirizzare nelle abitazioni l’aria fresca dall'esterno nelle ore notturne e ad asportare l'aria calda dall’interno dell’edificio durante il giorno.
Per umidificare e rinfrescare l’aria, inoltre, sotto la struttura venivano collocate delle vasche d’acqua. Come funzionavano queste “torri del vento”, anche dette “del silenzio”? Sfruttando l’energia eolica (del vento) o solare, più o meno così: l’aria si muoveva per la differenza di pressione tra la zona della torre (dove soffia il vento) e la zona sottostante. Se il vento non c’era, la corrente d’aria scaturiva dall’aria calda a ridosso della parete sud della torre, pronta a salire quando veniva scaldata dal sole.
Si chiama Yazd, è in Iran, ed è detta appunto “la città delle torri del vento”. Situata in un’oasi tra i deserti del Dasht-e Kavir e del Dash-e Lut, Yazd è letteralmente costellata di queste caratteristiche costruzioni. Esse rappresentano tutt’oggi i sistemi di “raffrescamento passivo” più sofisticati al mondo, più sostenibili, economici e rispettosi dell’ambiente. Lì si trova il bad-ghir più alto dell’Iran (quasi 34 metri), imponente rispetto ad un’altezza media di queste torri che si aggira sui 5 metri. In Medio Oriente, oltre ai “bad-ghir”, c’erano le “malqaf”, ossia torri aperte verso i venti dominanti, che si raffreddavano di notte per poi asportare il calore dall’interno di giorno. Infine c’erano i “qà’à”, ambienti nei quali dalle aperture di un lanternino in legno, posto alla sommità degli edifici, in estate usciva l’aria calda dall’interno, scambiata con l’aria fresca proveniente dall’esterno.
Nell’antica Palestina – ma succede spesso anche nella Palestina di oggi - per difendersi dal caldo si usa l’acqua. Ci spieghiamo meglio. Ogni stanza di una casa era dotata di una jarrah, ossia di un contenitore in terracotta per l’acqua; questo contenitore pendeva dal soffitto, e quando c’era aria calda l’acqua evaporava dalla “jarrah” e provocava il raffrescamento e l’umidificazione dell'ambiente circostante. Un sistema semplicissimo, se ci pensate! Nel 2022 la designer israeliana Yael Issacharov si è ispirata alla “jarrah” palestinese per il suo progetto denominato “Nave”. Questo consta di un pannello su cui si versa dell’acqua, la quale viaggia nei tubi cavi tramite le pareti porose di terracotta. In questo corto tragitto, l’acqua evapora pian piano prendendo la forma del vapore acqueo e assorbendo in tal modo il calore dall'aria e raffreddando la terracotta, l'acqua e l'ambiente circostante. Il progetto di Yael Issacharov, ragazzi, è stato ovviamente realizzato con i criteri di secoli e secoli fa: quindi senza nessuna tecnologia odierna; quindi senza elettricità. Battiamo cinque a Yael!
Il principio utilizzato in Palestina è lo stesso che veniva applicato, ad esempio, nella maestosa Alhambra di Granada (Spagna) e in altre costruzioni arabe in Spagna. Lì, infatti, fu con l’introduzione di specchi d’acqua e fontane che, oltre alla bellezza, per difendersi dal caldo si raggiunse anche il raffrescamento degli ambienti interni attraverso l’evaporazione dell’acqua.
Nella Grecia antica, così come nella Magna Grecia (che era l’Italia del sud) e in altri luoghi del Mediterraneo, gli uomini capirono anticamente che le case dipinte di bianco (compresi i tetti, in molte occasioni), costituivano un efficace rimedio contro il caldo ed erano efficaci nel rinfrescare l’ambiente domestico. Probabilmente non avevano fatto dei veri e propri studi: la constatazione dell’effetto del colore bianco era stata sicuramente frutto dell’osservazione. Oggi sappiamo che il bianco ha la capacità di isolare dal calore, e così quelle case e i loro tetti, essendo appunto bianchi, rinfrescavano gli ambienti domestici. Il bianco per le abitazioni e i tetti è un accorgimento che potrebbe tornarci molto utile nella lotta contro il riscaldamento globale. Il bianco ha la capacità di abbassare le temperature interne ed esterne in quanto riflette la luce solare, diminuendo in questo modo il calore che entra e respingendo i raggi. C’è chi, tra i grandi scienziati di oggi, ha proposto che tutte le abitazioni delle gradi città fossero dipinte di bianco. Non ci credete? Leggete qui sotto.
Il professore di ingegneria civile americano di origine iraniana, Hashem Akbari, Premio Nobel per la pace nel 2007, propose nel 2009 alle Nazioni Unite di dipingere di bianco i tetti delle grandi città per combattere il riscaldamento globale. Sicuramente avrai sentito parlare del riscaldamento globale, un fenomeno causato da quelle attività umane (soprattutto industriali) che mediante certi gas alterano la composizione dell’atmosfera e la inquinano, provocando lo scioglimento dei ghiacciai, il cambiamento del clima (sempre più caldo) ed eventi atmosferici catastrofici (uragani, alluvioni e altro).
L’intelligenza degli uomini è enorme, ma è almeno pari alla loro stupidità: mentre noi pensiamo e realizziamo cose strabilianti e bellissime, al contempo distruggiamo l’ambiente e la Terra. Torniamo al nostro Hashem Akbari. Egli riuscì a calcolare che l’applicazione di materiali altamente riflettenti (bianchi) su una superficie di circa 90 mq, abbatte l’emissione di anidride carbonica equivalente a 10 tonnellate all’anno, con un conseguente risparmio annuale di circa 250 dollari. Akbari disse che così facendo gli Stati Uniti d’America avrebbero potuto risparmiare energia per un miliardo di dollari, evitando una gran quantità di anidride carbonica.
Non solo, se le abitazioni delle più grandi città del mondo avessero i tetti bianchi si risparmierebbero 44 tonnellate di gas serra (ossia gas presenti in natura nell’atmosfera che, se in eccesso, generano il noto “effetto serra”: troppa anidride carbonica, troppo metano e troppo protossido di azoto rispetto alle quantità presenti in natura), ossia più di quanto tutti i Paesi del mondo emettono in un anno. Secondo lo stesso Akbari, se oltre ai tetti si dipingessero di bianco anche i marciapiedi, si compenserebbero oltre 10 anni di emissioni. Il bianco è in grado di riflettere la radiazione solare molto meglio di altri colori.
Già Steven Chu, Premio Nobel per la fisica nel 1997, e all’epoca Segretario dell’energia degli Stati Uniti, propose che in California venissero dipinte di bianco tutte le superfici orizzontali e i tetti. Ciò, appunto, per riflettere la luce e ridurre il riscaldamento delle città. Si chiama “climatizzazione passiva”: le case restano fresche e non si spreca energia. In California, dal 2005, è obbligatorio dipingere di bianco le coperture piane delle strutture commerciali.
I tetti bianchi sono un emblema tipico da secoli anche delle isole Bermuda. Sono fatti “a gradini” per rallentare la forza della pioggia e aiutarla a defluire nelle grondaie collegate ai serbatoi interni delle abitazioni. Bermuda, che è un arcipelago con una grande isola e centinaia di minuscole isolette nell’Atlantico del nord, non ha sorgenti d’acqua dolce, fiumi né laghi. Quindi come si sono attrezzati i suoi 60.000 abitanti per sopravvivere? Hanno raccolto l’acqua piovana, appunto. Oltre 400 anni fa hanno introdotto i famosi tetti “a gradini”, che convogliano l’acqua piovana in riserve sotterranee, e tutt’oggi questo è il sistema che garantisce loro la sopravvivenza. Le case sono quasi tutte autosufficienti, non hanno bisogno di una rete idrica né di pagare la bolletta dell’acqua. I tetti bianchi a gradini, che sono di calcare, oltre a rinfrescare l’ambiente non subiscono danni dagli uragani e aiutano a purificare l’acqua. Solo il turismo crescente ha imposto recentemente la necessità di costruire sei impianti di desalinizzazione, che permettono di rendere potabile l’acqua del mare.
Facciamo retromarcia e torniamo indietro nel tempo fino all’antica Roma per scoprire i criptoportici. Il concetto era lo stesso anche nell’antica Roma: sfruttare la frescura proveniente dal terreno mediante ambienti seminterrati in cui si trova l’acqua. E i Romani lo applicarono ai loro criptoportici, progettati nelle ricche dimore dell'antica Roma. Si trattava di corridoi o di vie di passaggio coperti, che erano del tutto, per metà o per tre quarti interrati a sostegno di un terrapieno, il quale era provvisto di una volta e di piccole aperture per illuminare e arieggiare l’ambiente sotterraneo. Il fresco, in questo caso, risaliva lungo le pareti e la circolazione d'aria era garantita dalle finestrelle dei criptoportici. Questi corridoi, che erano usati per sfuggire al caldo estivo, furono utilizzati anche per ospitare gli antichi mercati. Famosi sono il criptoportico degli Antonini, del 600 a.C., il criptoportico di Colle Oppio, il criptoportico della Domus Tiberiana, lungo 130 metri, quelli di Villa Adriana e la “Casa del criptoportico” di Pompei.
Adesso facciamo un salto in avanti di diversi secoli e andiamo in pieno Rinascimento, nel ‘500. Un grande architetto di questo secolo, che si chiamava Andrea Palladio (famoso per aver progettato il Teatro Olimpico di Vicenza, la Basilica di Vicenza e molte altre opere meravigliose) descrisse un ingegnoso sistema usato nelle ville di Costozza, di proprietà della nobile famiglia dei Trenti, che erano situate nel Comune di Longare, vicino a Vicenza. Intorno al 1560 la residenza fu collegata alle fresche grotte di raccolta dell'acqua piovana da un sistema di cunicoli (che erano detti “covoli” in vicentino), scavati anticamente per poterne estrarre delle pietre. Si tratta di una specie di labirinto sotterraneo che è descritto proprio da Andrea Palladio come un "carcere dei venti".
I Trenti costruirono le loro ville su questo terreno, pensando di poter sfruttare l’aria delle grotte per rinfrescare gli ambienti interni. E così collegarono i sotterranei dei fabbricati con i cunicoli, i cosiddetti “ventidotti”, alle grotte, e all’interno delle loro ville realizzarono un sistema di bocchette che consentivano la regolazione del flusso d’aria.
Ancora oggi l’aria fresca penetra nei sotterranei e attraverso le bocchette raggiunge i piani superiori. Palladio descrisse questo sistema nel primo dei suoi “Quattro libri dell’Architettura”, un’opera tra le più importanti del suo tempo. Un tempo in cui l’italiano era un po’ diverso da oggi (non troppo, come vedrete), con una punteggiatura che non seguiva regole particolari se non quelle personali di ogni autore; ma questo piccolo brano è comunque divertente da leggere e vi invitiamo a farlo. Eccolo: “(…) Nella Marca Trivigiana si cava una sorte di pietra, che si taglia come una sega, come il legno. Nelle quali nascono alcuni venti freschissimi, questi gentiluomini per certi volti sotterranei, ch’essi chiamano ventidotti; gli conducono alle loro case, e con canne simili alle sopraddette conducono poi quel vento fresco per tutte le stanze…”.
A Palermo, tra il XVI e il XVIII secolo, le ricche famiglie facevano costruire sotto le loro dimore delle grotte scavate nella roccia, a pianta quadrata o circolare con sedili intagliati per poter stare comodi. Attraverso una scala interna si raggiungeva un passaggio nascosto che conduceva alle "stanze dello scirocco" o “camere dello scirocco”: camere interrate fresche e arieggiate, grotte artificiali scavate nella roccia nelle quali poter andare nei giorni più caldi, ossia quelli in cui soffiava lo scirocco, il caldo vento proveniente dal sud-est.
Erano tre gli elementi principali di quest’ingegnosa creazione: la grotta, la corrente d’aria e l’acqua. La definizione di “camera dello scirocco” si trova per la prima volta nel 1691. I sistemi di aerazione naturale in uso nelle ville siciliane specie del Settecento erano ispirati a una serie di geniali sistemi ideati per la residenza normanna della Zisa (dall'arabo "aziz", ossia “nobile”, “potente”, “splendida”), un sontuoso palazzo che sorge alle porte di Palermo e la cui costruzione risale al 1164 per mano dei governatori normanni. Un sistema di ventilazione che ha anticipato di 850 anni i modelli sostenibili di aria condizionata che fanno uso di energie rinnovabili (solare, eolica, idroelettrica, geotermica, ecc.).
I fattori principali che hanno permesso la ventilazione all’interno del castello sono la grande piscina nel giardino antistante, la fontana al pianterreno, i due camini di ventilazione e gli ampi teli inumiditi appesi ai soffitti delle stanze dei piani superiori. La facciata principale del castello, con le sue tre grandi aperture, sfruttava le brezze marine. Le masse d’aria provenienti dal porto si rinfrescavano al passaggio sulla piscina esterna, entravano nel cortile d’ingresso e venivano ulteriormente rinfrescate dalla fontana centrale.
Quando l’aria si riscaldava risaliva ai piani superiori, un flusso favorito dal riscaldamento solare delle pareti dei camini in cui si producevano vortici d’aria. Vortici che convogliavano verso l’alto anche l’aria fredda facendola circolare in tutte le stanze. Il raffrescamento delle “camere delle scirocco” sono dovute anche, oltre all’utilizzo dell’acqua, ad un elemento caratteristico del sottosuolo palermitano: i “qanat”. Il qanat è una specie di acquedotto sotterraneo composto da un lungo canale leggermente inclinato che è in grado di far defluire l’acqua della falda fino ad una vasca di raccoglimento. Un sistema inventato durante il dominio arabo, la cui acqua è stata utilizzata per aumentare il raffrescamento delle “Camere dello scirocco”.
Circa 130 anni fa l’ingegnere francese Félix Trombe e l’architetto suo connazionale Jacques Michel inventarono un muro, detto appunto di “Trombe-Michel”, in grado di apportare refrigerio nei giorni di caldo intenso. Ma non solo: era efficace anche per le necessità delle altre stagioni. Come? Il muro, utilizzato ancora oggi, veniva collocato sulla parete sud dell’edificio interessato e veniva dipinto di colore scuro, così da catturare quante più possibili radiazioni solari. Un vetro separa il muro di accumulo dall’esterno e c’è un dispositivo di oscuramento. Il vetro e il muro di accumulo sono dotati di aperture che permettono diversi tipi di configurazione in base alla stagione. È utilizzato infatti sia per rinfrescare che per riscaldare. È diffuso in India, specie nella regione di Ladakh.
FONTI:
https://www.focus.it/tecnologia/architettura/aria-condizionata-raffrescare-senza-consumi
https://www.green.it/architettura-sostenibile-vernacolare/
https://www.treccani.it/enciclopedia/criptoportico_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/
http://architetturaclimatica.blogspot.com/2013/10/il-rinascimento-le-ville-di-costozza.html?m=1
https://www.siciliafan.it/camere-dello-scirocco/amp/
https://artsandculture.google.com/story/-gVxGDQMSwU5Kw?hl=it
https://www.fattistrani.it/post/tetti-bianchi-a-gradini-di-bermuda
https://www.youfriend.it/yazd-la-citta-delle-torri-del-vento/