Emanuele Sansone, Serafino Lascari, Giuseppe Letizia, Giuseppe e Salvatore Asta, Giuseppe Di Matteo, Nicholas Green, Michele Fazio…potrebbe continuare a lungo questo elenco. I loro nomi non sono scritti in nessun libro di storia, forse non li hai mai sentiti ma ogni 21 marzo vengono letti per le strade e le piazze di una città d’Italia in occasione della Giornata Nazionale della Memoria e dell’Impegno.
Sono i nomi degli oltre ottocento bambini uccisi dalla mafia. Ragazzini che si sono trovati accanto ad un adulto nel mirino della criminalità organizzata oppure uccisi per una vendetta famigliare o ancora durante un attentato. Bambini che andavano a scuola, che avevano una passione per il calcio o per la danza ma che hanno avuto la sfortuna di trovarsi al centro di una sparatoria o di aver visto qualcosa che non dovevano.
Abbiamo scelto di raccontarvi la storia di qualcuno di loro: bambini come voi che hanno lasciato il loro banco vuoto per sempre.
LE VITE PERDUTE
Domenico Gabriele, Dodò undici anni di Crotone, era uno di quei bambini “vivaci, generosi, pazzi per il pallone”. A scuola andava bene tant’è che lo prendevano in giro chiamandolo “secchione”. Ma per Domenico Gabriele ciò che era importante era stare dalla parte giusta.
Anche nella sua città non tutti erano come lui.
Dodò aveva sentito parlare di “quelli là” dai suoi genitori ma mai avrebbe immaginato di vederli in faccia. La sua vita è finita in un campetto di calcio dove “nell’aria al posto del pallone volavano pallottole” destinate ad un affiliato della ‘Ndrangheta. Una purtroppo ha colpito Dodò.
Anche Annalisa Durante ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato. Lei amava Napoli e il suo quartiere “Forcella” ma sognava un futuro lontano dalla sua città. Una ragazza sveglia “che teneva gli occhi bene aperti per capire cosa le accadeva intorno e si faceva fin da piccola un sacco di domande”.
Si era chiesta perché sua cugina Luisa era costretta a lavorare in un laboratorio nascosto in uno scantinato. Si era domandata perché nessuno facesse nulla per quei ragazzi che lasciavano i banchi di scuola troppo presto. Interrogativi rimasti senza risposta perché un pomeriggio di quattordici anni fa la sua vita è terminata nel suo quartiere vittima innocente di un regolamento di conti tra clan. Un giovane camorrista, durante una sparatoria tra clan, si è fatto scudo con il corpo della ragazza.
Ancora più anomala la storia di Giuseppe e Salvatore Asta, due gemelli. “Uno chiaro e ricciuto, l’altro con un folto caschetto scuro”. Avevano anche una sorella, Margherita, più grande.
Bambini come tanti altri, fortunati perché vivevano a Erice, una splendida città vicino al mare. Purtroppo in un’isola dove coloro che combattono la mafia, che fanno semplicemente il loro lavoro vivono protetti dagli uomini della scorta.
Il 2 aprile del 1985 Giuseppe e Salvatore stavano andando a scuola in auto con la mamma . Durante il tragitto, l’utilitaria ha incrociato la macchina del sostituto procuratore di Trapani Carlo Palermo, che si trovava nella città siciliana da cinquanta giorni e aveva già ricevuto diverse minacce. Erano da poco passate le 8.03 quando le macchine del magistrato e della sua scorta sfrecciavano per il rettilineo di Pizzolungo. Un attimo, un click ed esplose un’autobomba posizionata sul ciglio della strada che da Pizzolungo conduce a Trapani. L’utilitaria fece da scudo all’auto del sostituto procuratore che rimase solo ferito. Nell’esplosione morirono invece dilaniati la donna e i due bambini. Avevano 6 anni.
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Diversa la storia di Giuseppe Letizia uno dei primi bambini ammazzati dalla criminalità organizzata.
“Simpatico, un poco selvatico. Quando non era a scuola lo trovavi nei campi” o ad ascoltare Placido, un giovane sindacalista corleonese che di cognome faceva Rizzotto.
A Corleone la sua vita, dopo le lezioni, era in campagna ad aiutare il nonno. Anche quel giorno era andato al pascolo con le pecore ma mentre tornava a casa si accorse di tre uomini che trascinavano un uomo per poi ucciderlo. Aveva visto con i suoi occhi la morte di Placido. E come può un bambino sopportare una tale atrocità? Arrivato a casa gli era venuta la febbre tanto da doverlo portare all’ospedale dove non smise di invocare il nome di Placido ucciso da Luciano Liggio, luogotenente di Michele Navarra, capomafia di Corleone e direttore proprio di quell’ospedale. Giuseppe era diventato un testimone scomodo e venne ucciso con un’iniezione a 12 anni. Era il 1948.
Impossibile dimenticare il nome di Nadia Nencioni. Lei abitava in uno di quei palazzi antichi di Firenze, vicino ad uno dei musei più famosi al mondo, quello degli Uffizi. Uno di quei posti dove non puoi nemmeno immaginare che la mafia possa arrivare. Un luogo dove sognare. Da qualche settimana era ancor più felice per la nascita di Caterina e quella notte erano insieme quando verso l’una furono inghiottite “da un fumo nerissimo e denso”. Una bomba aveva distrutto le loro loto vite. Quella di una undicenne, Nadia e quella di Caterina di soli 50 giorni. Vennero distrutte moltissime abitazioni e persino la Galleria degli Uffizi subì gravi danneggiamenti.
La strage è stata inquadrata nell’ambito della feroce risposta del clan mafioso dei Corleonesi di Totò Riina all’applicazione dell’articolo 41 bis, che prevede il carcere duro e l’isolamento per i mafiosi. Era la notte tra il 26 e il 27 maggio 1993.