di Tommaso Mazzullo (IV B) e Elena Sofia Silva (IV C) del liceo scientifico Meucci di Ronciglione (VT)
“Mi sono sempre chiesta perché le ragazze fossero più cattive dei ragazzi quando si trattava di litigi. Era un giorno come un altro quello che cerco di cancellare da settimane. Stavo salendo le scale, era iniziato come un giorno speciale: zaino in spalla e un gran sorriso a mio papà che mi aveva accompagnata a scuola. Lavorava tanto perché eravamo soli, vivevo con lui da quando aveva divorziato da mia mamma. Litigavano ogni giorno e alla fine, quando ero all’inizio della prima media il giudice mi aveva assegnata a lui perché era l’unico con un lavoro fisso.
Ritornando a quel giorno, quel bruttissimo giorno… ero sulle scale ed ero felice, dopo il quarto o quinto scalino sentii lo zaino tirarmi indietro, uno strattone forte e deciso che mi fece cadere di spalle. Non capivo cosa stesse accadendo. Dolore. Un dolore lancinante alla fine della schiena. Avevo battuto sui gradini ma poi di nuovo dolore. La testa. Un gran male alla testa. Di fronte a me Clara e Valentina: “Cosi ti impari a dire che ci sono i compiti per casa quando i professori se ne dimenticano!”. Se ne andarono ridacchiando e io rimasi lì incredula. Faceva più male dentro che fuori. In classe arrivai solo un poco in ritardo perché non avevo il coraggio di entrare in lacrime ed ero andata in bagno a sciacquarmi il viso.
“Tutto bene Altegni?” “Si professoressa” mi limitai a rispondere, fingendo di essere tranquilla mentre sentivo ridacchiare nuovamente Clara e Valentina. Passai la ricreazione seduta a pensare se dire o meno a mio papà quel che era successo, ma lui era così stanco quando tornava a casa alle nove di sera e non volevo dargli anche questa preoccupazione, era stato un caso, solo un gesto stupido. Così credevo, eppure mi sbagliavo.
I due mesi successivi furono un inferno: scherzi, oggetti che dal mio banco finivano nel cestino e ogni ricreazione passata senza mangiare, perché la merenda era stata destinata a chi quel giorno non era sazio.
Mi sentivo sempre peggio, le giornate a scuola sembravano non finire mai e non vedevo l’ora di tornare a casa, dove passavo i pomeriggi sola e triste, chiusa in me stessa come i fiori di notte che si chiudono per proteggersi dal freddo mentre io quel freddo lo sentivo tutt’attorno a me.
Le mie amiche, che conoscevo dalle elementari, iniziarono a notare il mio comportamento diverso, reso tale da quei gesti che mi facevano ogni giorno più male. Io inizialmente non avevo una risposta da dare alle loro domande, stavo male e desideravo di rattristarle, nessuno vorrebbe raccontare cose così brutte e tristi alle proprie amiche; mi vergognavo troppo. Mio padre non notò che stavo dimagrendo, non si accorgeva che passavo le ore a piangere da sola in bagno e non avevo più voglia di parlare. Ero davvero sola, sola come quando si ha un problema grande e tanta paura a raccontarlo.
A scuola la situazione non andava che peggiorando, ero sempre più succube di ciò che accadeva e la ricreazione era il momento peggiore.
“Perché non trovo più i soldi sul mio banco?” disse Valentina con aria strafottente. Balbettai qualcosa di indistinto.
“Com’è non riesci più a parlare? Eppure parlavi parecchio con i prof.” Abbassai gli occhi.
“Guardami in faccia! Ah no, mammina e papino erano troppo impegnati a litigare per insegnarti le
buone maniere”.
Non risposi.
“TI HO DETTO DI GUARDARMI!”
PAF
Le diedi uno schiaffo, non avevo mai pensato di poter picchiare una mia compagna di classe, non lo avrei mai fatto, non era da me perciò me ne pentii subito.
“Come ti permetti cretina!” Valentina non se lo aspettava, pensava di potermi insultare quando e quanto ne aveva voglia. Scappò in bagno con le sue amiche che la rincorrevano ed io con la mano che mi formicolava per il dolore.
Quella fu l’ultima volta in cui mi ribellai perché il pomeriggio stesso Valentina riempì i social di foto in cui mostrava la guancia rossa e scritte piene di odio. Solo quel fatto, non c’era traccia di ciò che faceva lei a me da mesi; non c’era prova di quel che le sue amiche avevano fatto sui miei polsi
ogni volta che mi strattonavano, non c’era una singola parola che mostrasse chi fosse la vera vittima. Ero stanca di tutto, decisi addirittura di non andare a scuola il giorno seguente e poi quello dopo ancora e così fino alla fine della settimana. Papà non sapeva nulla.
Il lunedì seguente entrai in classe e trovai una nuova professoressa, giovane, sulla trentina, capelli scuri e pieni di boccoli, un sorriso gentile che mi scaldò il cuore per un momento, facendomi scordare dove mi trovassi. “Buongiorno, e tu sei…?”
“Michela, ehm… Michela Altegni”.
Doveva essere una supplente o qualcosa del genere perché non l’avevo mai vista, neanche a scuola.
“Buongiorno ragazzi, io sono la professoressa Nille, Francesca Nille. Vi insegnerò matematica e fisica per i prossimi tre mesi, cioè fino alla fine di quest’anno scolastico, perché la vostra professoressa si è operata e perciò sarete la mia ciurma per un po’” Era una persona frizzante e mi ricordava quella che ero io qualche tempo prima.
I giorni seguenti nessuno mi diede più fastidio se non qualche sussurro e schiamazzo al bagno e al cambio dell’ora, qualche battutina sul mio abbigliamento (troppo semplice per chi vestiva Gucci e Prada come Valentina e Clara). La professoressa Nille ci aiutava, mi spiegava le cose più volte se non capivo e mi spronava a dare il meglio, chiamandomi alla lavagna e facendo zittire qualcuna delle solite risatine. Mi appassionavo alle materie scientifiche ed ero quasi felice di andare a scuola; alla fine mi era sempre piaciuto studiare e imparare cose nuove.
Stava andando tutto liscio come l’olio quando arrivò il mio compleanno e l’incubo si manifestò tutto insieme. Tutta la classe era piena di foto e poster, c’erano animali e mostri con la mia faccia e sul mio banco bucce di banana e scarti di cibo. Quel giorno alla prima ora era prevista l’assemblea di classe e io avevo detto alla professoressa Nille, che ci aveva concesso l’ora, che sarei entrata a metà dell’ora per andare a fare le analisi del sangue nell’ambulatorio del paese. A quanto pare mi aveva sentita qualcuno. Ero pietrificata a quello scenario, incredula perché pensavo fosse tutto
finito. Invece no. Non era finito affatto. Con le lacrime a rigarmi il viso e le mani che tremavano dalla paura e il forte sconforto, mi sentii strattonare verso la porta da spinte continue dei miei compagni di classe che mi avevano accerchiata dicendo “ora non è più contenta” “pensava di passarla liscia” “così impara” “stavolta capirà di essere una perdente” “la piccola principessina è inciampata sulla scarpetta?”. Aprirono la porta e mi buttarono fuori dalla classe. Io corsi in bagno, non volevo crederci.
“Michela?” Smisi di singhiozzare e alzai il volto dal lavandino su cui mi ero gettata per sciacquarmi via di dosso le lacrime e la tristezza che sembravano cucite nei miei occhi. Vidi la professoressa Nille, aveva uno sguardo preoccupato e mi portò in biblioteca, dove non c’era nessuno in quel momento. “Dimmi cos’è successo Michela, calmati e respira”
Le raccontai la mia situazione, i trascorsi con i miei compagni di classe e appena arrivai a quel che era successo quel giorno corse via e la sentii urlare: era entrata nella mia classe e aveva visto ciò che io avevo visto poco prima. Quel che accadde dopo quel giorno lo puoi immaginare piccola mia, chiamarono il nonno e la nonna, la preside fece un lungo discorso a tutti noi della classe, ma poi io decisi di cambiare scuola; il nonno chiese il trasferimento qui, a Viterbo …proprio dove ho conosciuto il tuo papà!”
“Babbo Stefano!” disse Francesca, la mia piccola Francesca che a scuola stava facendo un progetto contro il bullismo con la provincia di Viterbo e mi aveva chiesto se avessi mai vissuto qualcosa di simile. Era bastato quello perché cominciassi a rievocare quei neri mesi di scuola.
“Amore mio ricordati sempre che tutte quelle cose che sembrano uno scherzo, se restano fatti isolati... tutti insieme e ripetuti nel tempo hanno un nome diverso. Si tratta di bullismo e tu amore, devi chiamarlo col suo nome, tu ti chiami Francesca e lui Bullismo, ma spero tu non debba mai ricordare questa parola, vorrà dire che questa cosa brutta brutta che è accaduta alla mamma non accadrà più e sarà solo una cosa vecchia, come la preistoria.” Le diedi un bacio sulla fronte perché forse era un discorso troppo serio per una ragazzina delle elementari, ma credo che abbia capito davvero che le cose brutte così non devono accadere e in qualunque cosa vanno chiamate col loro nome e denunciate. Il bullismo sembra un gioco ma è il gioco che nessun bambino dovrebbe imparare.
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