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Junior reporter, pane e marmellata

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Junior reporter, pane e marmellata
Ipo/alamy

La focusina Francesca ci racconta una storia di bullismo ma anche di come l'arte e gli affetti siano preziosi per superare i momenti difficili

Erik correva sotto la pioggia: non aveva né l’ombrello, né una giacca impermeabile, né un paio di stivali.
Correva a braccia aperte, lasciando che le gocce gli rigassero il viso. La strada di campagna che portava a casa sua era di ghiaia, piena di buche: saltava in ognuna. Aveva i pantaloni fradici, ma poco gli importava.
A scuola oggi era andata tutto sommato bene: la signorina Johns era stata clemente e non l’aveva interrogato.
I loro sguardi si erano incrociati per un secondo: lo aveva capito che forse non era preparato.
Non che non studiasse Erik, anzi amava leggere soprattutto libri di scienza, ma a volte faticava con le parole: non le capiva. I compagni naturalmente lo avevano capito e non tardarono a prenderlo in giro, anche pesantemente. La signorina Johns lo sapeva e spesso lo aveva salvato.
Non l’aveva capito invece la professoressa di matematica: alla lavagna era davvero crudele con l’algebra.
Erik faticava pure con i numeri.

Ma il disegno no: era la sua passione.

Disegnava ovunque: sui banchi, negli angoli dei quaderni...
Un giorno la bidella per punizione gli fece pulire tutti i banchi della classe, ma era più forte di lui.
Teneva in tasca sempre una matita blu: il suo colore preferito.
Anche quel giorno uscendo da scuola, non si era curato dell’ombrello ma della sua matita blu.
Era biondo, Erik: occhi grandi e gote rosse.
Forse un po’ magrolino per i suoi 11 anni, ma una fonte di energia.
Non stava mai fermo: per lui stare seduto era una perdita di tempo. Amava correre, arrampicarsi e guardare il mondo magari seduto sulla cima di un albero o su un muretto a secco, quelli che trovi nelle campagne.
Osservava e disegnava. Catturava le immagini e le ritraeva nel foglio bianco: bravo lo era davvero.

Arte: 10
L’unico della sua pagella.In quel giorno di poggia, Erik avrebbe corso più veloce se le sue gambe gliel’avessero permesso.
In un salto di una pozzanghera perse la sua matita blu, ma non se ne accorse.
Voleva arrivare a casa il prima possibile: aveva paura.
Paura di Sam e Paul: anche quel giorno lo avevano deriso e gli avevano brutalmente tolto di mano il pezzo di pane e marmellata, che la mamma gli aveva preparato.
La strada finiva dopo un piccolo ponte di legno, dove una famiglia di anatre nuotava beatamente.
Uno sguardo furtivo e compiaciuto.
Ancora una pozzanghera: eccola la casa rossa con il camino che fuma. È la sua.
La pioggia di inizio autunno e il vento avevano creato un piccolo vortice di foglie; Erik ci si tuffa in mezzo e gira su se stesso e ride, quasi a dimenticare il pane rubato.
Il suo girare si ferma al richiamo di un a voce inconfondibile che solo una mamma può avere: «Tesoro, sei tornato?».

Jean era la mamma più dolce del mondo, più dolce del suo pane e marmellata.

Erik si buttò fra le ginocchia della madre: aveva bisogno di quell’abbraccio.
E anche se era fradicio di pioggia, gli aveva scaldato il cuore.
Non servivano parole: ancora una volta la mamma lo aveva capito, non era stata una bella giornata per suo figlio. Vide un altro mulinello di foglie alzate dal vento: trascinò in mezzo la sua mamma e, bagnati fradici, ridevano e giravano tenendosi per mano.
La sua mamma era unica: come lui.
Rientrarono poco dopo: il tè caldo era già pronto sopra la tovaglia a cuori blu e scorse anche una fetta di pane e marmellata. «Levati i vestiti bagnati, altrimenti ti prenderai un accidenti».
Sentì la voce della mamma con un asciugamani grande dietro di sé.
Erik si spogliò e si fece avvolgere da quel telo e da un grande abbraccio.
«Bevilo, altrimenti si raffredda!».
La mamma si allontanò per mettere a lavare i panni bagnati, sapendo ormai con attenzione quasi chirurgica che prima doveva cercare fra le tasche la matita blu.
Sapeva che per Erik era essenziale, quasi vitale soprattutto in giornate come quelle, in cui spesso il suo bambino era oggetto di scherno da parte di alcuni compagni.

Era stata avvertita dalla scuola di quanto accaduto, ma non ne aveva fatto parola con suo figlio: troppo dolore avrebbe creato in quell’animo sensibile.
Erik in cucina sorseggiava il suo tè: amava guardare fuori dalla finestra, l’autunno era arrivato.
La querce del piccolo villaggio si erano vestite di giallo, rosso e arancione, un po’ come le poche case che lo circondavano in mezzo alla campagna.
Aveva la bocca sporca, piacevolmente sporca di marmellata.
Sembrava strano, ma la marmellata della mamma era la medicina ideale contro ogni malattia.
L’anticorpo perfetto contro il raffreddore, la tosse e l’antidoto per lenire il dolore che gli provocava lo stare a scuola con alcuni compagni.
Un po’ come la sua matita blu.
La matita blu?
Subito il suo volto sereno si trasformò in una smorfia di livore.
Mai si staccava dalla sua matita.
Scese le scale d’un fiato e, aprendo la porta, della lavanderia trovò la mamma nervosamente affaccendata a rivoltare le tasche dei pantaloni e della sua giacca.

«Erik qui non c’è!».

La mamma aveva già anticipato la risposta alla sua domanda.
«Forse l’avrai lasciata a scuola!».
Ma gli sembrava improbabile. Non se ne staccava mai: la matita blu era la sua coperta di Linus, il suo mondo.
Ripercorsero insieme la strada di ghiaia: forse era finita in una buca.
O qualcuno l’aveva raccolta e gliel’avrebbe riportata.
Sì, si convinsero che quella matita blu, la sera all’ora di cena, sarebbe tornata a casa.
Mano nella mano si avviarono incontro a un tramonto, ma Erik non era per niente tranquillo.
A cena mangiò pochissimo, giusto un po’ di pane e marmellata: quella della mamma.
Non volle lavarsi i denti quella sera: la bocca imbrattata era un po’ una coccola, come un bacio della buonanotte.
La mamma glielo permise
«Ma solo per stasera», ribatté.
La notte fu lunga e burrascosa.
Erik si girava e rigirava.
Più desiderava sognare e più Erik non ci riusciva.
Pensava alla sua matita blu, a quel giorno che gliel’aveva regalata suo padre.
Suo padre...
Era un giorno di primavera al vecchio mulino, sdraiati su un prato con il naso all’insù guardavano il cielo.


«Il cielo è particolarmente bello oggi, è di un blu intenso!», disse suo padre.
E per magia prese da una borsa di cuoio un album con dei fogli e cominciò a disegnare con la sua matita blu.
Era un pittore suo padre.
Un pittore che incontri per strada, nelle grandi città.
Negli scorci di un tramonto o di un monumento lo puoi trovare, ma mai nello stesso posto.
Sapevi quando partiva, mai quando tornava.
Tirò un paio di righe con la matita blu e il quadro era perfetto.
Lo ammirava Erik quel padre: lo ammirava tantissimo.
Avvolse il disegno mettendo una data: mese di maggio. E gli regalò la matita blu.
»Prima o poi torno - gli disse -. Non so quando, ma torno».
Non lo sapeva ancora Erik che da quel giorno di maggio, sarebbe passato tanto tempo.
Spesso andava al mulino con la speranza di rivederlo, ma non capitava mai.

Lo sognò quella notte e sognò la sua matita blu.

Stava albeggiando fuori e non aveva chiuso occhio. Sgattaiolò in camera di sua mamma: era sveglia.
Nemmeno lei aveva dormito molto pensando a suo figlio e alla matita blu.
Quella mattina Erik non toccò nulla: non aveva fame. Il pane e marmellata stavolta non potevano curarlo.
La mamma però gliel’aveva preparato e messo nello zaino.
Prese la strada che costeggia il fiume: la brezza d’autunno lo accarezza. Ma non lo consola: la sua matita blu gli manca, come gli manca quel pittore stravagante ma così buono.
Nel poco tempo che passavano insieme gli aveva insegnato a usare lo sguardo: a fotografare un tramonto, un albero, una stagione e renderla viva in un foglio.
Gli aveva insegnato a usare le matite colorate, le sfumature.
Ma il blu lo riconduceva a quella domenica in cui si spinsero con l’auto vecchia di famiglia fino al mare: il mare del Nord. Dove, se la giornata, è limpida riesci a vedere le coste della Svezia.
Ed era proprio quel giorno.
Si spinsero fino agli scogli, fin dove il mare lambiva le sue scarpe e dipinsero insieme: solo ed esclusivamente con la matita blu.
Era immerso in quel mare di ricordi. Quando ci pensò, fu il suono di un campanello di una bicicletta a farlo tornare alla realtà.
Una fragorosa frenata sulla ghiaia e si ritrovò a terra:

Sam e Paul gli erano addosso.

Erano stati sospesi dalla signorina Johns ed erano visibilmente pieni di rabbia.
Appena il tempo di mettere le mani a terra, che sentì la testa perdersi tra la ghiaia e l’infinito.
Un infinito che si trasformò in un vortice in cui non riusciva a capire se avesse più dolore per il pugno inferto, o paura per il sangue che gli usciva copiosamente dal naso.
Se ne andarono i due vigliaccamente.
Erik aprì a fatica lo zaino per cercare il fazzoletto, ma fortunatamente trovò il pane e marmellata che sua madre gli aveva preparato.
Lo mangiò avidamente e si sentì quasi meglio.
Quel giorno pensò che forse non era il caso di presentarsi a scuola, anche se avrebbe perso le sue ore adorate di disegno.
Arrivò a casa livido: la mamma aprì la porta.
Non c’era bisogno di parole: lo abbracciò a sé.
Insieme a quell’abbraccio la mamma aveva qualcos’altro in serbo, qualcosa di meravigliosamente dolce: una cartolina.
Era del suo papà arrivava da Firenze:
«Vi penso con amore. Tornerò presto. Papà».

Quella cartolina aveva un gusto dolce come la marmellata della mamma.
Era scritta con la matita blu. E blu era anche l’occhio di Erik. Ed era pure molto gonfio.
Ma poco importava. Quel giorno, oltre al pugno, aveva avuto una dolce carezza al cuore.
Per un po’ Erik non volle andare a scuola.
Doveva prima trovare la pace nel cuore e affrontare i compagni “cattivi” senza rabbia: lui non era come loro.
Ci pensava la signorina Johns a tenerlo a passo coi compagni.
Arrivava due volte la settimana con la sua bicicletta rossa e cestino marrone.
Indossava sempre un cappello con un grande fiore.
Era affezionata a quel ragazzo così sensibile e definito da tutti “strano”. Dopo tutto anche lei lo era: forse per questo era l’unica insegnante che riusciva ad aprire la porta di quel cuore preso a schiaffi.

Arrivò Natale, la neve cadeva copiosa: sembrava cadessero piume bianche candide.

E, guardando dalla finestra, Erik aveva una voglia irrefrenabile di dipingere, ma non aveva la sua matita blu.
La mamma gli aveva regalato per Natale i colori e pure la signorina Johns ci aveva provato con un album nuovo.
Provò a tracciare qualche segno con una matita anonima, ma a ogni movimento un sentimento di grande vuoto e malinconia lo inghiottivano. La mano non andava avanti, l’attrito tra lei e il foglio era grande.
Passò Natale, passo Pasqua. Era arrivata finalmente una bella giornata di maggio.
Erik si svegliò stranamente allegro e con la voglia di disegnare: per la prima volta dopo tanto tempo.
Mangiò velocemente il pane e marmellata preparato sulla tavola, adagiato sopra la tovaglia con i cuoricini blu.
Prese dal cassetto della cucina la cartolina di Firenze e si diresse al mulino.
Il cielo era terso e l’aria frizzante.
La mamma lo scorse dal giardino scappare dal viottolo di casa pieno di tulipani.
Anche lei si sentiva stranamente felice perché lo era suo figlio.

Oltrepassò il ponte di legno, saltò la staccionata, uno sguardo furtivo per trovare il posto giusto ed ecco: si sedette. Intorno a lui una distesa di piccole margherite, il fruscio del vento. Guardò con cura la cartolina, aprì il blocco da disegnò, respirò profondamente e cominciò a segnare qualche tratto.
A un certo punto la mano si fece lieve e si scaldò.
Ponte vecchio con i suoi negozi si materializzarono sotto i suoi occhi, come quella mano che lo stava guidando con una matita blu.
Era quella di suo padre: finalmente era tornato.
Non servivano parole: il disegno parlava ed era pieno d’amore.

Francesca