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Vecchioni: “dobbiamo ripartire dai classici”

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Vecchioni: “dobbiamo ripartire dai classici”
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Cantautore ed ex insegnante, nell’ultimo disco si è rivolto alle nuove generazioni con un consiglio: trovare nella cultura la forza di non arrendersi.

Roberto Vecchioni è uno di noi. Un professore, ma anche un cittadino da sempre in prima fila per i diritti umani e un cantautore che ha raccontato la nostra storia.

Lo ha fatto con Luci a San Siro nel 1971, con Samarcanda nel 1977 e ancora nel 2011 a Sanremo con Chiamami ancora amore. Recentemente è tornato con un nuovo disco: L’infinito dove racconta di Alex Zanardi, Giulio Regeni, della guerrigliera curda Ayse e di Giacomo Leopardi.

Professore, nel suo ultimo lavoro si rivolge alle nuove generazioni invitandole a sfidare l’impossibile. Qual è il messaggio che vuole dare?

«Sfidare il destino non proprio l’impossibile. L’impossibile è qualcosa che non si sfida e di cui non abbiamo conoscenza. Il destino è quando ci sembra che tutto ci sia contro e invece siamo noi a non dare troppa importanza ai nostri meriti, alle nostre forze. Dobbiamo continuamente rinforzare le possibilità che abbiamo di sconfiggere tutto ciò che ci è contrario. Questo i giovani lo devono fare. Ma certo non bisogna generalizzare. In realtà non esistono “i giovani”. In quest’Italia smembrata, spezzata, esistono “alcuni giovani”. Ci sono quelli che soffrono in silenzio ma vanno avanti; quelli che se ne fregano, che sono annoiati dal mondo; ci sono quelli che ci provano; altri che si abbattono; alcuni sanno che la cultura ha il suo peso e la sua importanza. Insomma, è difficile parlare di loro. Non esiste la categoria del giovane medio».

La scuola ha responsabilità di fronte alla precarietà culturale?

«La responsabilità è di una nazione che non si è mai unita e non si è mai data un programma unitario, non solo di educazione e di cultura. Manca un modo di pensare unitario. Ci sono voluti 150 anni per farlo e non ci siamo ancora riusciti. Purtroppo nel nostro Paese ci sono divisioni tremende e abbiamo ancora troppi stereotipi, pregiudizi. Inoltre, una parte d’Italia è stata abbandonata nelle mani della mafia. Non possiamo chiedere una scuola che funzioni, quando la prima a non andar bene è la nazione».

È la fine degli ideali?

«Non proprio. Si crede ancora a qualche ideale. Ci sono testimoni meravigliosi. Penso ai ragazzi del bus di Crema. Bisogna partire da quelli. C’è un’altra ripartenza da fare. Sembra una parola vana ma non è così. Si deve ripartire dalla cultura. Non esiste un senso al lavoro, al tentativo di costruire se dietro non c’è il sostegno della cultura».

Lei in trent’anni d’insegnamento ha visto le generazioni cambiare.

«Sono cambiate in molte cose. Il 1968 ha segnato uno spartiacque. Sto parlando del Sessantotto dei sogni, dei desideri, delle assemblee dei ragazzi. Oggi la situazione è diventata sempre più liquida. I ragazzi nuotano male in questo mare. Spesso non si trovano, non si incontrano, non riescono a darsi la mano, a toccarsi. L’Italia si è destabilizzata».

In questo quadro quale può essere un punto di riferimento?

«Senza dubbio i classici. Non sto dicendo che tutti devono fare il liceo classico, ma in tutti gli indirizzi di studio bisognerebbe ripercorrere il mondo classico: greco e latino. Dobbiamo capire che quel mondo è ancora presente in noi, sono i nostri valori fondamentali. Non tenerne conto significa vivere senza regole, senza basi. Oggi mancano le fondamenta sulle quali costruire i palazzi».

Come conquistava gli allievi il professor Vecchioni?

«Si discuteva di tutto, non solo dei programmi scolastici. Si parlava di come nascono le lingue, le radici del pensiero umano. Nelle mie lezioni c’era sempre la vita e la cultura, quella che si scruta in un quadro o in un romanzo. E poi c’era anche il divertimento: i ragazzi a scuola non possono solo rompersi le scatole».

Quali sono gli strumenti che oggi un insegnante ha a disposizione?

«Sono tantissimi. Ma di quale insegnante vogliamo parlare? Spesso a un docente delle medie arriva un ragazzo già conquistato dal mondo digitale ed è difficile insegnare solo a parole e attraverso i libri. A dieci, undici anni hanno già una costruzione mentale fatta a settori. È inutile per un ragazzo sapere una nozione perché la trova su Internet. Eppure lo studio ti fa restare in testa quello che conta. Internet è un accidente, non una sostanza».

Come si insegna la musica nella nostra scuola?

«Si fa malissimo. Più volte si è tentato di riprendere l’argomento pensando a un’ora di musica obbligatoria nei licei e in tutte le scuole. Ci sono tanti modi per farla. Bisognerebbe imparare anche ad ascoltarla, non solo a suonare. Sarebbe giusto apprendere la storia del jazz, della musica sinfonica, della canzone popolare. Questo manca da noi; mentre c’è nelle scuole americane e negli istituti di molte nazioni europee. Altrove c’è una cultura musicale».

Le capita di rivedere i suoi ex alunni?

«Certo, mi mandano mail, mi scrivono sul sito. Hanno fatto quasi tutti quello che desideravano. Con una decina di loro ci incontriamo ancora per qualche pranzo».

Quali sono i libri che hanno fatto di lei un maestro?

«Tutti i classici. Dai greci ai latini, ai russi, ai francesi dell’Ottocento, al nostro Rinascimento e moltissimo Novecento. Quest’ultimo dovrebbe essere la materia di tutto un anno».

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