Fisico teorico e docente universitario, impegnato nell'astrusa ricerca di una soluzione capace di combinar la Teoria della relatività e la Meccanica quantistica, Carlo Rovelli è diventato all’improvviso famoso in tutto il mondo come divulgatore scientifico grazie a un libretto scarno e prezioso, Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), tradotto in tutto il mondo.
La cosa che più colpisce del suo lavoro di divulgatore e di scienziato è la capacità di usare registri diversi: ha scritto libri brevi e semplici, di grande successo, ma anche testi complessi e meno conosciuti. E poi ai suoi studenti all’università e nei suoi lavori scienti ci, parlerà in modo ancora diverso. A scuola come si deve fare? Si deve scegliere uno stile o provarne tanti?
«Nella mia esperienza di insegnante ho capito che è più efficace usare linguaggi diversi. I corsi che tengo all’università sono composti da più momenti: lezioni dure, racconti leggeri, discussioni aperte. Passo dalla presentazione di un argomento difficile e rigoroso a considerazioni generali, dalle chiacchiere ai teoremi.
I motivi sono tre. Il primo è che gli studenti sono diversissimi fra di loro: il modo di imparare di ciascuno è soggettivo. Qualcuno trova facile ciò che per un altro è un passaggio insormontabile e viceversa. Ognuno di noi impara diversamente e per insegnare bisogna arrivare a tutti. Il secondo motivo per mescolare registri è che la scuola è noiosa. Ricordo ancora con angoscia la noia che provavo sui banchi di scuola. Quindi almeno variamola! Il terzo motivo è che imparare mette sempre in gioco parti diverse di sé: la memoria, l’attenzione,la capacità di assorbire concetti e le emozioni che motivano tutto questo. E quindi è necessario ricorrere a più registri».
Lei è certamente appassionato di quello che fa. Ma la passione per la scienza, come quella per la letteratura o per l’arte, è qualcosa che si ha o che si trasmette? Glielo chiedo anche in un altro modo: l’educatore deve scoprire la passione del suo studente o deve suscitarla?
«Penso sia la stessa cosa. Un’intervista precedente, fatta a Umberto Galimberti, sulla vostra rivista, si intitola “Per insegnare bisogna saper affascinare”. Credo che questo titolo in fondo dica tutto quello che ci sia da dire sull’insegnamento; il resto sono dettagli. Affascinare vuol dire suscitare passione. Ma suscitare passione vuol dire entrare in sintonia con le passioni profonde dei giovani, che ci sono già, e notoriamente gli adulti non le vedono. Con ogni probabilità Leopardi, che coltivava mondi sterminati nella sua anima, era visto come un giovane svogliato e “sdraiato” da suo padre e il giovane Einstein era notoriamente un perdigiorno. L’intero progetto del sapere, della conoscenza, che si trasmette nella scuola, è raccontato così bene nel “Simposio” di Platone: un progetto di meraviglia, di fascinazione, di amore e plagio fra maestro e studente. Quando la scuola da oceano di noia si apre in questi momenti di entusiasmo, e per fortuna succede spesso, allora la scuola funziona, io credo. E, mi permetta di aggiungere, ho visto scuole francesi, americane e inglesi: l’Italia ha forse la migliore scuola del mondo».
Lei ha scelto anche una attività di impegno civile, scrivendo per il Corriere della Sera, intervenendo su temi che esulano dalla sua competenza scientifica. E per questo qualcuno l’ha anche criticata. I docenti corrono lo stesso rischio a scuola. Secondo lei, come dovrebbero comportarsi?
«È un equilibrio delicato ma che va cercato con determinazione e intelligenza. Come nella vita, ogni insegnante deve sapere mantenere il rispetto profondo per chi la pensa diversamente da lui. Il rispetto delle idee diverse è un grande insegnamento che può dare la scuola. Ma questo non significa che un insegnante debba presentare tutte le idee come eguali. Al contrario, i docenti migliori sono quelli che difendono e argomentano con passione le proprie idee, anche politiche, senza nasconderle. Non esiste l’obiettività nel mondo del sapere e delle idee. E la scuola è il mondo delle idee. Gli insegnanti che ciascuno di noi ricorda sono quelli appassionati. La scuola non deve riempire la testa degli studenti: deve dare strumenti e scatenarla».
A proposito della sua capacità di rivolgersi a platee diverse: che effetto le fa quando le capita di entrare nelle scuole per qualche incontro?
«Ogni volta rimango ammirato dal lavoro dei docenti. È molto più difficile insegnare nelle scuole che all’università, dove comunque la distanza è maggiore e i contatti minori.È bellissimo insegnare, ma quanto è difficile!»
Con chi le riesce più facile avere a che fare? Con i bambini delle elementari o i ragazzi delle superiori?
«Non saprei dire. Credo che ogni età sia diversa. A volte basta pochissimo per rendere facile una cosa difficile o viceversa. Ricordo una supplenza in una scuola media quando ancora ero studente universitario. Appena arrivato, sbarbatello e inesperto, la classe mi ha mangiato. Facevano i fatti loro e non mi degnavano di interesse. Era una supplenza di matematica e mi hanno subito detto che detestavano la matematica. In programma avevano degli esercizi con equazioni lineari e dovevano fare dei grafici, che evidentemente trovavano insensati e noiosissimi. Per un po’ ho insistito per farglieli fare. Poi ho lasciato perdere e ho raccontato loro di Cartesio, della sua idea di trasformare le formule in disegni e disegni in formule. Ho spiegato come questa piccola idea sia alla base di tutta la scienza moderna, perché le formule non sono astratte ma sono sempre espressione di una forma, di un disegno. Dopo un po’ erano tutti rapiti e ascoltavano in silenzio. E alla ne scherzavano fra di loro chiedendosi quale fosse la formula che disegna la bicicletta. E disegnare rette, tutto d’un tratto, era diventato bello».