Ore 10: ricreazione in giardino in una scuola primaria. Due bambini di quarta si azzuffano per motivi assolutamente futili. Uno dei due cade e batte la testa. Nulla di grave, ma la maestra si spaventa. Nota a entrambi e per una settimana tutta la classe trascorrerà la ricreazione in aula.
Ore 11: lezione di inglese in una seconda media. La prof parla a vuoto, i ragazzini ridono, urlano e non l’ascoltano. I promotori del caos in aula sono i soliti quattro o cinque, il resto della classe segue il flusso per non essere etichettato come loser (cioè sfigato). Non è la prima volta: nei giorni precedenti la giovane prof (al secondo anno di insegnamento) le ha già provate tutte. Con i bei discorsi, con argomenti accattivanti. Nessun risultato. Alla fine dell’ora, assegna per la prima volta a tutti un compito di castigo: due pagine di traduzioni extra. E per la lezione successiva annuncia interrogazioni a tappeto. Funzionerà?
Due episodi abbastanza comuni, due dei tanti che capitano ogni giorno in classe. Voi come avreste reagito? Ritenete che la nota, il compito di castigo o la sospensione per i casi più gravi oggi siano ancora sanzioni efficaci? Vi sono alternative alla punizione in classe?
A regolamentare in modo generico la questione delle punizioni è la legge n. 71/2017 per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo con alcuni articoli specificamente dedicati alla scuola, e lo Statuto delle studentesse e degli studenti che ricorda come il regolamento d’istituto debba “individuare i comportamenti che configurano mancanze disciplinari” e prevedere “le sanzioni per queste mancanze comprese quelle alternative”. Null’altro.
Sul tema mancano anche dati e ricerche di rilievo. Per fornire una bussola agli insegnanti, abbiamo dunque chiesto l’opinione di alcuni esperti di diversa formazione.
La conclusione: una bacchetta magica non esiste, ma sono emerse alcune indicazioni utili per costruire un proprio modo di affrontare i comportamenti scorretti, evitando di minare la relazione con lo studente e la classe.
PREPARARE IL TERRENO
«Il tema delle punizioni è delicato» esordisce Fabio Celi, psicologo specializzato in terapia del comportamento e docente di psicopatologia dello sviluppo all’Università di Parma «ed è reso complicato da due fattori: da un lato, la sanzione è gravida di conseguenze talvolta difficilmente controllabili; dall’altro, nella nostra organizzazione sociale e culturale si ha un po’ di paura a usarla. Bisognerebbe avere la consapevolezza che la sanzione deve rappresentare nel processo educativo l’ultima spiaggia. Insomma, va usata quando le altre procedure hanno fallito, mai essere la prima scelta. Ci dev’essere a priori il controllo di tutte quelle circostanze che possono aiutare il bambino a mettere in atto comportamenti positivi. Soprattutto la gratificazione, la ricompensa sistematica di tutti quei comportamenti che, pur non essendo totalmente positivi, sono antagonisti al comportamento inadeguato che ci verrebbe da sanzionare».
Inoltre, sostiene, «la sanzione dovrebbe essere programmata ed esplicitata: “Guarda che se farai così, ti capiteranno questi guai”. Cioè non dovrebbe mai capitare come un fulmine a ciel sereno, ma preceduta da
una serie di avvertimenti» dice Celi. «La punizione dev’essere consumata in un arco temporale ragionevole e commisurata al fatto negativo commesso: “Ti sei comportato male oggi, domani non giochi a calcio nel cortile”».
Infine, un avvertimento per tutti gli insegnanti: «La sanzione non dovrebbe mai essere erogata come una scarica, come un piacere sadico. Non serve se data perché fa piacere al punitore». Se ci si rende conto di essere caduti in questo tranello, «è necessario un lavoro su se stessi perché lo studente percepisce di essere stato punito per un atto di rabbia o rivalsa e non per un atto educativo».
LA NOTA? DIPENDE...
Entrando nel concreto dei singoli strumenti sanzionatori, a favore dell’uso della nota è Giorgio Ragazzini, insegnante di lettere alla scuola media, esperto di problemi disciplinari e parte del gruppo dei docenti di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità: «Il problema a monte è quello della fermezza educativa che è la capacità di prendere decisioni nell’interesse dei ragazzi, anche quando costa. In qualsiasi sistema educativo che funzioni la sanzione educa al limite, a ciò che non si deve fare. Le note sono degli avvertimenti utili. L’Ocse (cioè l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: ndr) rileva come nei luoghi nei quali vi è una certa disciplina i ragazzi sono più sereni, i risultati migliori e gli insegnanti non sono stressati».
Celi invece ha una posizione mediana: la nota può essere efficace soltanto se c’è l’appoggio della famiglia. «Quando la maestra sa con ragionevole certezza che i genitori, vedendo la nota, a loro volta prenderanno le misure punitive in modo blando e correttivo, allora ha senso darla. Ma se l’insegnante dovesse già sapere che in quella famiglia della nota non importa nulla a nessuno, non serve a nulla».
Contraria tout court è invece la pedagogista Monica Guerra, docente di mediazione didattica e strategie di gruppo all’Università Bicocca di Milano: «Sempre più i sistemi sanzionatori che hanno funzionato in passato non reggono perché oggi si è alzata l’asticella della trasgressione, compreso quello che si può fare o dire a un insegnante. Il linguaggio è cambiato e rende impraticabili certe regole che erano possibili fino a qualche decennio fa. Elevando così tanto questa asticella, teoricamente anche le punizioni dovrebbero aumentare, ma questo non è possibile in un sistema scolastico».
IL COMPITO DI CASTIGO? UN OSSIMORO
Unanimi invece i pareri degli esperti sul compito di punizione. «È un delirio educativo perché insegna che fare i compiti è punitivo» osserva il pedagogista Celi. E continua: «Le punizioni che funzionano sono quelle che producono una sottrazione, anziché un’aggiunta: un intervallo anziché durare 20 minuti dura 10 oppure domani non guarderemo il film».
Sulla stessa lunghezza d’onda la pedagogista Guerra: «Il compito di castigo è inconcepibile perché è un ossimoro. O il compito è qualcosa che ha senso nella formazione dell’alunno e allora non potrà mai essere una punizione oppure è (ma non lo dovrebbe essere) qualcosa di sgradevole e allora si può usare come punizione».
LA SOSPENSIONE? CONTROPRODUCENTE
Non è ammessa alla scuola primaria, ma è spesso usata alla secondaria di primo e secondo grado. Anche in questo caso le visioni sono concordi. Dice Monica Guerra: «Quando un alunno fa qualcosa di sbagliato l’ultima cosa da fare per correggerlo è non farlo più venire a scuola». Si rischia ancora di più la dispersione scolastica, un grave problema del nostro Paese.
«La sospensione» aggiunge Celi «è uno dei metodi educativi meno adeguati perché rischia di essere un rinforzatore. Se consiste, poi, nel penoso compromesso della sospensione con l’obbligo di frequenza non si capisce più che cosa voglia dire».
QUATTRO CASI CONCRETI
Psicologi e pedagogisti però non sono in classe tutti i giorni, con 20-30 bambini o ragazzini che, se va bene, hanno soltanto i normali problemi della crescita o di crisi pre- adolescenziale. Abbiamo dunque messo alla prova Celi e Guerra con due casi concreti ciascuno.
Primo caso (simile a quello citato all’inizio): che cosa fare di fronte a due bambini della scuola primaria che si sono presi a botte durante una partita di calcio alla ricreazione?
Celi risponde: «Questi due alunni andrebbero presi da parte e sanzionati verbalmente dalla maestra, lontano dagli altri compagni. È chiaro che serve una punizione: il giorno dopo non potranno giocare a palla e dovranno restare seduti e riflettere su quello che hanno combinato. Così come andrebbero avvertiti che si tratta di una lieve sanzione perché il fatto è accaduto una sola volta. Ma che se si dovesse ripetere, l’insegnante sarà costretta a dare punizioni più gravi. Dopodiché il docente non dovrebbe dimenticare che se questi due bambini sono in grado di giocare a palla senza picchiarsi per alcuni giorni, vanno premiati. Va fatto notare loro che la maestra si è accorta e ha apprezzato il cambiamento».
Secondo caso: siamo in una scuola media ed è stato trovato nello zaino di un alunno un coltellino svizzero che il ragazzo ha mostrato ai compagni.
«Anche in questo caso l’insegnante dovrebbe comminare una punizione verbale che consiste nello spiegare l’atto e mostrare il regolamento d’istituto. Inoltre, con una preventiva autorizzazione dei genitori va sequestrato il coltellino. Se il coltellino fosse stato usato per fare danni agli oggetti, la punizione corretta sarebbe quella di rimediare. Tecnicamente si chiama iper-correzione: hai graffiato il muro della classe perciò devi provvedere a risistemare quello della tua aula e anche quello delle classi adiacenti».
A Guerra abbiamo sottoposto altri due casi.
Primo caso: un bambino di terza elementare per più giorni non ha portato i compiti. Che cosa farebbe?
«Proverei a ragionare con il bambino su come mai non riesce a portare i compiti» dice la pedagogista. «Se a scuola poi il momento di verifica è fatto insieme, farei presente all’alunno che la mancanza dei compiti significa non portare il proprio contributo al gruppo. Eviterei la nota, cercando di capire come mai non riesca a rispettare la consegna, di che tipo di aiuto può aver bisogno. Insomma, tenterei di responsabilizzarlo. Se il problema non si risolve ne parlerei con la famiglia. Ma stiamo attenti: noi diamo sempre per scontato che se un allievo non porta i compiti è per negligenza. In realtà, a volte i compiti segnano una disparità tra chi ha qualcuno a casa capace di farglieli fare e chi non ha nessuno che lo segue».
Secondo caso: siamo in terza media e un alunno ha risposto in maniera irrispettosa all’insegnante. Che sanzione dare?
«Si può provare a dire al ragazzino che la sua reazione mette a disagio l’insegnante e genera sofferenza. Non escludo che ci debba essere un intervento anche più fermo dicendo al ragazzino: “Per le prossime due settimane questa cosa che ti piace tanto non la farai” oppure “Devi leggere un libro sul tema del rispetto”».
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