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Influencer: nuovi miti a bassa intensità

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Influencer: nuovi miti a bassa intensità
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Il fenomeno degli influencer merita una riflessione in classe. Cerchiamo di capire perché piacciono ai ragazzi aiutandoli a sviluppare il loro spirito critico.

I nuovi miti dei ragazzini, gli influencer, hanno visi imberbi, generalmente occhialuti e a volte brufolosi, milioni di seguaci e occupazioni poco eroiche: giocare ai videogiochi, insegnare trucco e parrucco, far ridere con piccole gag. Soprattutto, hanno nomi astrusi: Lyon, Ratorix, CiccioGamer89, Awed, iPantellas, ST3pNy, Lasabrigamer, The Lady. Provate a pronunciarli in classe e vedrete gli sguardi dei vostri alunni accendersi di eccitazione. E forse vale la pena dedicare loro un po’ di tempo sottratto alle lezioni. Perché per bambini e adolescenti sono amici virtuali, compagni di giochi con cui passare molto del loro tempo libero. Ma anche maestri di vita.

E questo merita una riflessione.

INFLUENCER DI CHE COSA?

Si definiscono influencer: persone che, appunto, influenzano le scelte, i gusti, gli orientamenti, gli acquisti dei loro seguaci. Spopolano su Facebook, Instagram, YouTube. I più famosi, come Fedez e Chiara Ferragni, raggiungono milioni di followers con un solo messaggio. Favij, idolo dei ragazzini, ha recentemente festeggiato i 5 milioni di iscritti al suo canale. Clio Zammatteo, alias ClioMakeUp, ha superato i 6 milioni tra donne e ragazzine. Numeri importanti che fanno gola al mercato pubblicitario.

I dati dicono che nel 2018 la spesa da parte delle aziende in influencer marketing ha toccato i 180 milioni di euro, pari al 7% del totale degli investimenti nella pubblicità digitale. E, secondo le stime di Publicis Media, dovrebbe arrivare a 241 milioni nel 2019, in crescita del 34%. Significa che buona parte di quei post, stories, video, seguiti dai nostri ragazzi sono sponsorizzati. O direttamente, quando le aziende pagano gli influencer perché, per esempio, in un post si pettinino usando un determinato prodotto per capelli. Oppure indirettamente, quando le aziende pagano gli youtuber perché realizzino un video comico, per esempio, alle prese con la cottura di un arrosto. E poi pagano nuovamente per inserire un vero e proprio spot di un prodotto alimentare prima dell’inizio di quel video.

Se quest’ultimo tipo di pubblicità è evidente, non lo è allo stesso modo il primo. Nelle stories postate dagli influencer il prodotto sponsorizzato si vede a malapena. Una presenza troppo smaccata potrebbe irritare la community di followers e scatenare messaggi di critica e odio. Per questo, nonostante la legge italiana imponga di marcare i video o le foto sponsorizzate per non incorrere in multe salatissime, la scritta adv (abbreviazione di advertising, pubblicità) risulta quasi sempre invisibile. Per ogni post, i guadagni degli influencer vanno dalle poche centinaia di euro ai 200mila euro dei più famosi.

E sebbene risulti difficile convincere i ragazzini che non è “figo” guadagnare così tanto facendosi riprendere mentre si gioca a un videogioco, metterli in guardia sul fatto che i loro idoli non sono così spontanei come sembrano è comunque utile.

MODELLI DA IMITARE

«È innegabile il larghissimo consenso che (specie gli youtuber) ottengono fra i giovani che li considerano nuovi, interessanti, dinamici fino a diventare dei modelli da imitare» scrive Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore per bambini, nel suo libro Né dinosauri né ingenui. Educare i figli nell’era digitale (San Paolo Editore).

L’esperto consiglia di non disprezzare quello che i ragazzi apprezzano. Rifiutare i loro idoli è controproducente, cioè si rischia di ottenere solo chiusure e irrigidimenti. Conviene piuttosto ascoltare e capire, cercando come sempre di far crescere quello spirito critico che è la vera difesa contro qualsiasi forma di abuso della Rete. Tanto più che Favij, ClioMakeUp e compagnia sono per i ragazzi di oggi l’equivalente dei miti di omerica memoria.

Anche se a bassa intensità, come sostiene Peppino Ortoleva, studioso di storia e teoria dei mezzi di comunicazione, nel suo recente libro Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana (Einaudi).

«Non esistono culture senza miti. L’umanità li usa per andare al di là di quello che può concretamente sperimentare e proiettarsi in universi differenti. I miti propri del nostro tempo sembrano essere a bassa intensità: adempiono a funzioni simili a quelli classici, però, non proiettano il racconto in un altro mondo, ma calando l’universo mitico nel nostro quotidiano. Pensiamo ai divi del cinema, persone fisiche con nome e cognome, con i loro limiti che a volte andiamo a sottolineare attraverso il gossip, che però vivono anche le storie fantastiche che interpretano. Il divo televisivo è analogo, ma con l’intensità che si abbassa. L’influencer mi sembra sia una figura mitica a intensità ancora più bassa. Diciamo che è una forma democratica di divismo. Sono persone come noi che vengono proiettate in una posizione insieme simile alla nostra e superiore alla nostra. Se l’influencer diventa qualcuno totalmente diverso da noi, rischia di perdere parte del suo ruolo e sicuramente molti dei suoi seguaci. Invece, è qualcuno che noi potremmo diventare se ne fossimo capaci».

AMMIRAZIONE E INVIDIA

I ragazzini provano nei confronti di questi miti un misto di ammirazione e invidia. E si lasciano guidare: gli influencer dicono che cosa devi e non devi indossare, ascoltare, guardare, preferire. Svelano come si deve fare per non sembrare un nerd, come si conquistano le ragazze o i ragazzi. Offrono modelli chiari da seguire e imitare per salire nell’Olimpo dei giusti. Maestri di vita, appunto.

E non importa se la loro fama declina con la rapidità di una meteora: si accenderà subito una nuova stella per guidare i naviganti della Rete.

«Internet è un brodo di coltura in cui i miti si formano, si riformano, circolano e cadono. Nel mondo web il magma mitico è continuamente ribollente. Viviamo in mezzo a migliaia di miti contemporaneamente. Questo provoca disorientamento. Ecco perché l’influencer diventa una guida, una bussola» spiega ancora Peppino Ortoleva. Non è detto che i ragazzini credano davvero a tutto quello che questi personaggi propinano loro. In molti casi riconoscono velocemente la bufala, hanno meccanismi di difesa.

«Bisogna lavorare con loro per smontare il meccanismo delle grandi bugie in Rete ma non in maniera paternalistica, senza trattarli da stupidi» ammonisce Ortoleva. Insomma, dobbiamo armarci di coraggio e pazienza e metterci insieme a loro davanti allo schermo del computer per conoscere i loro idoli e capire davvero perché piacciono così tanto.

Certo non sembra che questi ragazzini esperti nel superare i livelli dei videogiochi o nell’offrire il profilo migliore nelle foto abbiano l’appeal degli eroi omerici, kalòs kagathòs, belli e buoni.

«Però non è vero che gli eroi dell’Iliade e dell’Odissea incarnassero valori solo e linearmente positivi. Achille era capriccioso e rancoroso. Troia è stata presa con un subdolo inganno. Il punto è un altro: molti dei valori eroici sostenuti per moltissimo tempo sono stati legati al conflitto, alla guerra. E questo è un problema grossissimo annidato sotto la nostra cultura, perché i valori sono stati sganciati dalla guerra ma sostituirli non è semplice. C’è un vuoto da colmare. Questo fa sì che nell’universo mitico a bassa intensità ci sia una sorta di fame di modelli plausibili che contemporaneamente portino con sé valori elevati: gli eroi sportivi, per esempio, sono analoghi a quelli classici».

Nel web c’è spazio per tutti, insomma. Anche per gli eroi veri. La nostra Bebe Vio, che ha trionfato due volte alle Paraolimpiadi e ha messo all’asta la medaglia d’oro per beneficenza. Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace, che a 11 anni raccontava nel suo blog i soprusi dei talebani pakistani contro le donne e per questo è stata ferita gravemente. Greta Thunberg, la ragazzina svedese che ha portato milioni di persone in piazza in tutto il mondo per chiedere rimedi concreti contro il riscaldamento globale.

Questi sì potrebbero diventare influencer popolari. Suggeriamoli!

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