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Il crocifisso in classe e la questione dell’identità

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Il crocifisso in classe e la questione dell’identità
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Ancora oggi si discute sul crocifisso in classe. Bisogna metterlo? Va bene toglierlo? Quale significato attribuirgli? Il punto di vista di Alex Corlazzoli

«È il simbolo del nostro cristianesimo, della nostra religione cattolica. È giusto che sia nelle aule. Io ce l’ho, l’ho voluto appena entrato. Nelle scuole una certa attenzione mi sembra doverosa». Stiamo parlando del crocifisso e a pronunciare queste parole è stato qualche tempo fa il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca Marco Bussetti che, messo piede nel suo ufficio, ha visto solo la foto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ha subito richiesto un crocifisso da appendere.

L’inquilino di viale Trastevere deve tenerci proprio molto alla croce in classe, dato che anche da piazza del Popolo all’adunata della Lega lo scorso 8 dicembre ha ribadito: «Dobbiamo mettere il crocifisso nelle classi scolastiche durante il periodo di Natale».

COSA DICE LA LEGGE?

La questione non è da poco, soprattutto se un ministro della Repubblica insiste così tanto. L’argomento è stato dibattuto parecchio già in passato.

A oggi il crocefisso in aula è previsto dall’articolo 118 del Regio decreto 30 aprile 1924, numero 965 e dal Regio decreto 26 aprile 1928, numero 1297. Entrambe le disposizioni devono ritenersi ancora in vigore in quanto non abrogate.

Possiamo poi contare sulla circolare numero 68 del 22 novembre 1922 che recitava: “In questi ultimi anni, in molte scuole primarie del Regno l’immagine di Cristo ed il ritratto del Re sono stati tolti. Ciò costituisce una violazione manifesta e non tollerabile e soprattutto un danno alla religione dominante dello Stato così come all’unità della nazione. Intimiamo allora a tutte le amministrazioni comunali del regno l’ordine di ristabilire nelle scuole che ne sono sprovviste i due simboli incoronati della fede e del sentimento patriottico”.

LA QUESTIONE OGGI

Sia il regio decreto sia la circolare sono di un’altra epoca. Ora siamo nel 2019. L’Italia non è più una monarchia e il fascismo è lontano nel tempo. Ma se un ministro chiede con tanta insistenza un crocefisso che cosa deve fare un insegnante? Oltre a far funzionare la lavagna multimediale, a preoccuparsi della sicurezza dell’edificio scolastico, a trovare fondi per avere qualche computer in più e i soldi per un viaggio d’istruzione, deve curarsi di avere il crocefisso in aula? Forse sì. Per il ministro Bussetti è una questione culturale.

Non mi spaventa affrontare il tema dell’identità, ma la scuola non ha alcuna necessità di ostentare i suoi simboli. L’antropologo Marco Aime scrive in Eccessi di culture (Einaudi): «Parole come cultura, identità, etnia, razzismo compaiono con sempre maggiore frequenza nei discorsi dei politici, sulle colonne dei giornali, nei dibattiti televisivi. Talvolta vengono utilizzate in modo scorretto o peggio strumentalizzate a fini politici».

Bussetti sembra giocare in difesa. Ma non c’è alcun attaccante in zona Cesarini.

Il crocifisso in aula ha senso se assume un significato. Nelle mie aule c’è una croce realizzata con il legno dei barconi sui quali i migranti hanno attraversato il Mediterraneo.

I bambini, prima di noi adulti, sanno far incontrare culture e identità senza sbandieramenti. Mi sovviene alla mente il dialogo con un bambino siriano:
«Maestro, io sono musulmano e voi?»
«Be’... in Italia la maggior parte è cristiano.»
«Il mio Dio è buono.»
«Anche il Dio dei cristiani è buono, non esiste un Dio cattivo.»
«Maestro, ma il vostro Dio dove sta?» «In cielo.»
«No, no... impossibile. Nel cielo c’è anche il mio. Forse il tuo sta sul tuo cielo qui in Italia e il mio sul cielo della Siria».