In quinta, di solito verso la fine dell'anno, i bambini della scuola primaria affrontano insieme al maestro di scienze l'apparato riproduttivo.
Aprono il libro di teso e si trovano, invariabilmente, a due pagine. A sinistra: come siamo fatti, i nostri organi riproduttivi, le differenze tra maschi e femmine. A destra: lo sviluppo del feto durante i nove mesi della gravidanza e la nascita. E in mezzo? Che cosa ci sta in mezzo? I bambini se lo chiedono. Molto spesso, però, nessuno risponde. Non l’insegnante, che si attiene disperatamente al programma dribblando eventuali domande. Non la famiglia, che ancora oggi naviga a vista nelle torbide acque del dico e non dico. E allora a volte già a quell’età la nuova “maestra”, Internet, colma la lacuna e offre tramite i canali di video porno una spiegazione quanto mai inadatta, incompleta, fuorviante e francamente brutale.
EDUCAZIONE SESSUALE: A SCUOLA O IN FAMIGLIA?
L’Italia è uno dei sette Paesi europei nei quali l’educazione sessuale non fa parte dei programmi scolastici. Ci fanno compagnia Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Spagna e Romania. In tutto il resto del continente europeo, spesso a partire dalla scuola dell’infanzia, bambini e ragazzi “studiano” il tema esattamente come si fa con le altre materie di insegnamento.
La Svezia ha reso obbligatoria l’educazione sessuale a scuola nel 1955, la Gran Bretagna quest’anno.
Da noi, ogni progetto in questa direzione, a partire dalla prima proposta di legge nel 1975 no all’ultima nel 2015, è rimasto sigillato nei vari cassetti del dimenticatoio della politica. Per via dell’opposizione dei genitori, si dice, soprattutto quelli cattolici. Ma è davvero così?
«Il mio punto di vista è che il luogo privilegiato per affrontare questi argomenti è rappresentato dalla famiglia». A parlare è Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra, padre di sette gli adottivi, organizzatore del Family Day e leader del comitato Difendiamo i nostri figli. «È un’incombenza, una responsabilità, un dovere della famiglia affrontare un tema con aspetti morali e religiosi così delicati» dice convinto.
Altrettanto convinti, replicano i sostenitori dell’educazione sessuale a scuola. «Dire che spetta soltanto alla famiglia è una sciocchezza» commenta Mario Puiatti, presidente dell’Aied, l’Associazione italiana per l’educazione demografica. Una delle più antiche in Italia, è stata fondata nel 1953 con un’ispirazione laica e democratica ed è diffusa su tutto il territorio nazionale.
«Non facciamo altro che trasmettere il messaggio che il sesso è una cosa brutta e sporca, si fa ma non si dice». Argomenta Paolo Ercolani, docente di filosofia dell’educazione all’Università di Urbino: «La scuola è il luogo dedicato all’apprendimento e all’educazione dei ragazzi ed è assolutamente il più indicato per introdurre una materia del genere».
Gli fa eco Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, coautore con Barbara Calaba, di uno dei manuali più usati, Col cavolo la cicogna! (Erickson): «A scuola i bambini vivono tantissime ore e non è un territorio neutro rispetto alla sessualità. Non può essere una zona sterilizzata dagli adulti quando è molto vissuta e agita da parte degli studenti. Bisogna renderla un luogo formativo ed educativo non un luogo indifferente o addirittura censurante».
Sembra un dialogo impossibile, una contrapposizione destinata a paralizzare ancora per molto tempo il dibattito sul tema in Italia. Eppure, nella preparazione di questa inchiesta sono emersi insospettabili punti di contatto. Tanto più che perfino Papa Francesco sul tema ha detto parole inequivocabili: «Nelle scuole bisogna dare un’educazione sessuale, il sesso è un dono di Dio». Il pontefice ha ribadito che sarebbe meglio cominciare l’educazione sessuale in famiglia, «ma questo non sempre è possibile perché ci sono tante situazioni svariate nelle famiglie. E quindi la scuola supplisce a questo, perché altrimenti rimarrà un vuoto che poi verrà riempito da un’ideologia qualsiasi».
GENITORI PREOCCUPATI O SOLLEVATI?
«Sono sei anni che entro nelle scuole primarie per parlare ai bimbi di quinta di affettività e sessualità» racconta Giulia Comoletti, educatrice della Fondazione Somaschi. «Mi è capitato solo una volta, a Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, di aver ricevuto una critica da parte dei genitori: una coppia, molto civilmente, mi ha detto che non avrebbe più consentito alla figlia di partecipare alle lezioni del corso perché la bimba era tornata a casa troppo impressionata da quello che aveva sentito. Per il resto, i genitori si affidano a noi educatori, anzi, sembrano sollevati per il fatto che di questi temi si parli anche a scuola e non soltanto in famiglia».
Prima di ogni percorso, gli educatori della Fondazione Somaschi (una onlus presente in Piemonte, Lombardia, Sardegna e Liguria) presentano il progetto alle famiglie, spiegando esattamente di che cosa si parlerà e di come se ne parlerà. Alla fine del ciclo di lezioni, poi, i genitori sono invitati a partecipare ai circle time dove si riflette tutti insieme su quanto è emerso.
«A dire il vero» ammette Giulia Comoletti «non sono molti i genitori che partecipano, al massimo sei o sette per classe, sia agli incontri preliminari sia a quelli finali. Però c’è tanto interesse: chiedono la scaletta, consigli sui libri da leggere insieme ai figli. Vengono anche i genitori stranieri, spesso musulmani. Non mi hanno mai opposto critiche o divieti ma vorrei essere certa che comprendano a fondo quello di cui stiamo parlando: per loro davvero servirebbe un mediatore culturale».
Non tutte le associazioni però hanno dimostrato pari attenzione e delicatezza nei confronti delle famiglie. Alcuni corsi non prevedono momenti di confronto con i genitori e neppure una presentazione preliminare. Recentemente il Miur ha chiarito che le attività scolastiche extracurriculari, soprattutto se riguardano tematiche sensibili dal punto di vista etico o religioso, devono essere preventivamente autorizzate dai genitori.
«Questa è una nostra vittoria fondamentale» chiosa Massimo Gandolfini. «L’attuale ministro ha capito benissimo che stavamo vivendo in una situazione schizofrenica per cui se un ragazzo doveva andare in gita era obbligatorio il consenso della famiglia, se invece doveva essere educato sulla sessualità questo consenso veniva bypassato. Era inaccettabile».
EDUCARE ALL'AFFETTO
In quasi tutti gli altri Paesi europei l’educazione sessuale, in quanto materia curriculare, è obbligatoria e non viene data possibilità di scelta alle famiglie. In quegli stessi Paesi, però, esiste uno standard ben preciso, esistono linee guida dettagliate alle quali gli insegnanti (formati appositamente) devono attenersi.
In Italia, invece, in mancanza di una legge o di un quadro chiaro di riferimento, ogni scuola si regola come crede. «Fondamentalmente quello che succede è che ognuno può fare quello che vuole» riflette Alberto Pellai. «E in moltissimi casi significa non fare niente».
In altri casi, significa trovarsi a scegliere tra numerose offerte di corsi più o meni espliciti, più o meno completi. Soprattutto, più o meno costosi. «Le scuole fanno sempre più fatica a reperire fondi e noi non riusciamo a offrire tutti i corsi gratuitamente» racconta Anna Sampaolo, educatrice dell’Aied. «Il nostro corso completo affronta la sessualità nel suo complesso, in relazione alle emozioni, ai sentimenti, alle relazioni. Spesso però» si rammarica Sampaolo «le scuole per motivi di budget scelgono il corso ridotto. E allora si ha a malapena il tempo di parlare di organi riproduttivi e contraccezione».
E proprio questo è uno dei nodi cruciali. Sono in molti a respingere l’idea che l’educazione sessuale a scuola debba limitarsi a fornire informazioni tecniche ai ragazzi su come avviene un rapporto sessuale, come si trasmettono le malattie, come evitare gravidanze indesiderate.
«Non voglio negare che ci sia bisogno di un’educazione sessuale, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione di malattie» riflette Paolo Ercolani. «Dico però che oggi si riscontra che i ragazzi hanno molto più bisogno di un’educazione sentimentale che sessuale. Quella sentimentale è il presupposto fondamentale perché si sviluppi una sana vita sessuale. Anche un rapporto di un’ora deve essere vissuto nel rispetto di se stessi e dell’altro, non può diventare strumentale ed esclusivamente fisico. L’educazione sessuale rischia di ridurre la percezione che loro hanno delle relazioni a qualcosa di meccanico».
Per questo il filosofo ha lanciato un progetto avviato con la Regione Piemonte lo scorso dicembre cui hanno aderito anche altre regioni e parecchi istituti scolastici della penisola. Una sorta di “Lezioni d’amore”, cui gli studenti partecipano numerosi e che si concludono sempre parecchio tempo dopo il suono della campanella...
«Tra i ragazzi si assiste alla scomparsa dell’empatia» continua Ercolani che affronta questi temi anche nel suo libro più recente, Figli di un dio minore, in uscita per Marsilio. «L’incapacità di sentire che l’altro è un essere umano come me, l’incapacità di mettersi nei panni dell’altro, di capire il suo disagio o imbarazzo o sofferenza. Secondo me questo è all’origine del fatto che i ragazzi vivono anche i rapporti sessuali in maniera molto
più strumentale, finalizzata esclusivamente al raggiungimento del piacere. Quindi, che cosa mi importa di usare il preservativo? Il problema dei rapporti non protetti non si risolve semplicemente spiegando come si usa».
Per i suoi corsi di educazione sentimentale Ercolani è stato duramente attaccato dai rappresentanti dell’area Lgbt (un termine collettivo usato per riferirsi a persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender) perché a loro giudizio non affrontava in maniera esplicita temi come la contraccezione.
Un’indagine di Skuola.net in collaborazione con la Società italiana di contraccezione ha rivelato nel 2016 che un ragazzo su 10 non ha mai usato alcuna protezione e il 42% ha avuto almeno una volta un rapporto non protetto. «Ma questa argomentazione va proprio a favore di quello che dico» replica Ercolani «nel senso che l’atto responsabile verso se stessi ma anche verso l’altra persona è qualcosa che afferisce molto più alla sfera affettiva e personale e relazionale piuttosto che sessuale». È d’accordo Massimo Gandolfini, che dal punto di vista cattolico rimarca come educazione sessuale e educazione alla responsabilità debbano andare di pari passo ma offre contemporaneamente un’insperata apertura sulla possibilità di parlare a scuola di rapporti sessuali e contraccezione. «Mi fa molto paura quello che ho visto in passato in tante scuole italiane» racconta. «Ci sono progetti virtuosi ma anche progetti estremamente limitati. Questi percorsi a volte sono educazione alla genitalità e basta. Il sesso è la funzione forse più nobile dell’uomo che gli consente di far nascere un nuovo individuo. Deve essere contestualizzato in maniera intima e strettissima con la sfera sentimentale. Non può essere presentato come un’attività ricreativa, la semplice soddisfazione di un desiderio. Questo deresponsabilizza». E prosegue: «Io non dico che non si debba parlare ai bambini dell’atto sessuale. Dico però che va affrontato alla ne di un percorso complesso».
E i contraccettivi? «Parliamone pure» risponde Gandolfini «ma nel contesto di questa educazione alla responsabilità. Senza aver paura di raccontare che non deludere nessuno. Ma a volte abbiamo deciso di non farlo. Ad esempio, quando ci è stato chiesto come si fa sesso tra due uomini. Dispiace lasciare alcuni bambini con la loro insoddisfatta curiosità. Però dobbiamo tutelare anche altri bimbi in quella classe che magari sono più piccoli dal punto di vista emozionale».
QUANDO INIZIARE?
Ecco, quale sia l’età giusta per affrontare l’educazione sessuale è uno di quei nodi aggrovigliati che richiederanno molto tempo e pazienza per essere sciolti. Soprattutto, tanto buon senso. Nel 2010 l’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) ha pubblicato gli Standard per l’educazione sessuale in Europa.
Elaborati da un gruppo di 19 esperti provenienti da nove nazioni diverse, gli standard “indicano ciò che bambini e ragazzi, nelle diverse età a partire dalla nascita, dovrebbero sapere e comprendere per poter crescere in modo gratificante, positivo e sano per quanto attiene la sessualità”.
Il documento voleva sostenere la causa dell’educazione sessuale e aiutare a definire i programmi curricolari nei differenti gradi dell’istruzione. Sono 69 pagine nelle quali l’Oms sostiene l’opportunità di un’educazione sessuale olistica, che veda la sessualità definita in termini più ampi, non focalizzandosi necessariamente sui rapporti sessuali; partecipativa, continuativa, contestualizzata e dunque adattata alle specifiche caratteristiche di ciascun Paese. In fondo al documento, una matrice offre una panoramica generale degli argomenti che dovrebbero essere presentati per ogni fascia di età.
E qui, poche righe hanno scatenato in Italia un dibattito feroce e a tratti surreale.
LA POLEMICA
Tra le informazioni che andrebbero veicolate ai bambini prima dei cinque anni, infatti, compaiono «la scoperta del proprio corpo e dei propri genitali, gioia e piacere nel toccarsi, masturbazione della prima infanzia». Apriti cielo!
L’Oms è stata accusata di istigare i maestri d’asilo a insegnare ai bambini a masturbarsi. «Il grande danno è stato aver estrapolato cinque righe facendole circolare tra le famiglie in modo allarmistico» spiega Alberto Pellai. «Gli insegnanti sono davvero spaventatissimi. Si è detto: giù le mani dai nostri figli. Tutto questo costruire barricate divide l’alleanza scuola-famiglia. Quelle cinque righe si riferivano semplicemente al fatto che qualsiasi insegnante di scuola materna ha a che fare con bambini che si masturbano e quindi deve sapere come gestire la cosa. Era un invito agli insegnanti a formarsi, non un’istigazione ai bambini a masturbarsi!».
Pellai si dice pienamente d’accordo con l’Oms sul fatto che l’educazione sessuale inizia con la nascita. «La sessualità è con noi da quando nasciamo quindi ci saranno aspetti legati all’educazione emotiva, sessuale, sentimentale che possiamo affrontare già dalla scuola dell’infanzia. Non c’è scolaro di quell’età che quando vede il pancione della zia non chieda come nascono i bambini. Se tutto quello che riusciamo a dire sono favole, bugie o addirittura non risposte riveliamo di essere in estrema difficoltà. E un adulto spaventato non è di nessun aiuto per loro. I bambini e le bambine, invece, non sono affatto spaventati. Ci chiedono della sessualità con la stessa naturalezza con cui ci chiedono come batte il cuore».
IL RUOLO FONDAMENTALE DEGLI INSEGNANTI
Torniamo ancora una volta in classe. Gli alunni sono seduti in cerchio, si confrontano tra loro e con l’educatrice sui cambiamenti in atto nei loro corpi e sulle loro sensazioni. ed emozioni. E l’insegnante? «Rimane fuori dal cerchio, in silenzio» spiega Anna Sampaolo dell’Aied. «Noi richiediamo assolutamente la loro presenza ma spesso tendono a sgattaiolare, tocca rincorrerli...».
«Non abbiamo mai accettato che gli insegnanti uscissero dalla classe durante i corsi» le fa eco Giulia Comoletti della Fondazione Somaschi. «Tranne quando lo chiedono gli alunni. Alle elementari mai, succede spesso alle medie. L’alleanza è quanto mai necessaria per evitare che questo argomento diventi ulteriormente un tabù». Eppure, e in questo Anna e Giulia concordano pienamente, l’ostacolo principale lo pongono proprio gli insegnanti, con il loro imbarazzo. «Scuotono la testa» racconta Comoletti «e rifiutano i nostri corsi dicendo che i bambini poi farebbero loro domande cui non saprebbero rispondere. L’errore è proprio quello di formare gli educatori come noi che lavorano sul tema ma non i docenti».
Concorda pienamente Sampaolo che aggiunge: «Soprattutto, gli insegnanti devono lavorare sulle proprie emozioni, altrimenti rischiano di passare ai loro alunni informazioni inquinate dalle proprie problematiche personali».
La Fondazione Somaschi non propone mai alle scuole un pacchetto predefinito di corsi ma soltanto un canovaccio. Nell’incontro di programmazione con gli insegnanti si discute passo passo ogni punto del programma. È tollerabile per la classe questo argomento? Si può fare il circle time o i bambini sono troppo irrequieti? Che ruolo vuoi avere tu, maestro o maestra? Vuoi soltanto osservare o anche partecipare?
«Gli argomenti a volte vengono accettati e a volte rifiutati» racconta Giulia Comoletti. «In genere non ci sono problemi a parlare in classe del ciclo mestruale, dell’atto sessuale, di anticoncezionali. Paradossalmente, i più grandi imbarazzi riguardano le polluzioni notturne, un argomento che invece i bambini di quell’età affrontano senza farsi problemi. E sull’omosessualità arrivano dei no secchi». L’educazione cosiddetta di genere è un’altra di quelle gatte da pelare che spaventa a volte in maniera immotivata. Perché un conto è la famigerata teoria del gender, che secondo i suoi detrattori sostiene che non ci sono maschi e femmine ma semplicemente persone, libere di assegnarsi autonomamente il genere che intimamente percepiscono al di là del loro sesso naturale. Un conto è invece parlare ai bambini e ai ragazzi di quali siano gli stereotipi di genere e del perché debbano essere smontati, del rispetto verso differenti scelte e orientamenti affettivi e sessuali.
«Questa educazione di genere è urgentissima» avvisa Alberto Pellai «per prevenire le violenze. Pensiamo, ad esempio, alle ragazze: l’equazione tra magrezza e bellezza, il suggerimento continuo che sia necessario essere sexy per avere valore, un valore esterno e mai interiore, intrappola le bambine preadolescenti in una iperesibizione sui social dove rischiano di farsi molto male».
E i dati sono allarmanti: secondo la già citata indagine di Skuola.net, un ragazzo su 10 ha alzato le mani almeno una volta su una ragazza; uno su tre l’ha insultata pesantemente; due ragazze su cinque perdonerebbero uno schiaffo dato dal danzato. Per non parlare degli insulti e aggressioni rivolti a ragazzini gay.
«Ora c’è una complessità più visibile nel campo dell’orientamento sessuale» ragiona Alberto Pellai. «È diventata un’evidenza necessaria. E i genitori spaventati pensano di potersi difendere dal rischio di avere una diversità in casa tenendo tutto chiuso nel cassetto. In realtà, quello che succede è solamente che chi vive quella condizione è costretto a stare in silenzio e non ha la possibilità di chiedere un supporto educativo a nessuno. È senza dubbio un autogol educativo spaventoso».
In questo modo, secondo Pellai, sia i genitori sia gli insegnanti rinunciano al loro ruolo di educatori, lasciando i ragazzi completamente soli. «La famiglia» conclude Pellai «deve costruire soprattutto dialogo e relazione. Se questo funziona, il genitore non si sente per nulla indebolito da qualsiasi messaggio esterno perché per i suoi gli resta un punto di riferimento. Qualsiasi cosa i gli si sentano dire fuori casa tornano nello spazio di relazione della famiglia e ne discutono con mamma e papà. Il danno è quando gli adulti rinunciano a questo ruolo. Mi dica quanti sono i genitori o gli insegnanti che parlano di pornografia ai ragazzi maschi? Il 95% di loro guarda siti porno alle medie. Se quella è l’unica cosa che entra nel loro mondo interno è chiaro che la situazione diventa paradossale. Ma è davvero pericoloso parlare con un figlio o uno studente di questo o è un suo diritto e un mio dovere?».
Insomma, che gli adulti si comportino da adulti. Smettano di tacere imbarazzati e affrontino le loro responsabilità. Senza ridacchiare.
«Perché tante persone quando gli parli del sesso si mettono a ridere?» si legge scritto con calligrafia infantile ma decisa su uno dei biglietti trovati nella scatola della quinta C. E quel bimbo ci ammonisce: «È una cosa seria».